1962-1964: elettrotecnica il secondo biennio all’Hensemberger

In terza ho fatto crescere la barba anche se non c'erano ancora i baffi ed è stata una bella guerra con papà che non vietava, ma faceva l'ironia. Questo, come dice mia figlia, è un dato di imprinting che mi è rimasto e, a suo dire, siamo identici.

Per il triennio di specializzazione ho scelto elettrotecnica. All'Hensemberger c'erano solo tre trienni mentre per le altre specializzazioni si doveva andare a Milano (chimica e fisica al Molinari, nucleare ed elettronica al Feltrinelli). Da noi: corso A, primo piano, meccanica; corso B, secondo piano, elettrotecnica; corso C, terzo piano, metallurgia (una specializzazione inventata da De Majo, con una sola gemella nel bresciano, per tener conto della siderurgia di Sesto San Giovanni e delle fonderie del territorio).

I laboratori della scuola erano una cosa grandiosa: ricordo quello tecnologico al piano terra in cui venivano le aziende del territorio a fare le prove sui materiali (durezza, resistenza alla fatica, resilienza, elasticità, trazione e pagavano). Credo che fosse il lavoro principale del capo ufficio tecnico e vice preside prof. MIgliorini. Da Preside ho avuto modo di consultare i verbali del Consiglio di Amministrazione della scuola (con gestione finanziaria autonoma sino agli anni sessanta). Era una azienda ben gestita e flessibile nel rapportarsi al tessuto produttivo del territorio. Se serviva una macchina la si comprava, se serviva una specializzazione o un corso pre e post diplloma, lo si apriva. Se servivano incentivi al personale si davano. Da quei verbali ho scoperto che l'ingegner De Majo, appena nominato nel 45, fu mandato dallo Stato per uno stage di un anno alla Fiat, perché per governare un ITIS dovevi aver visto e assorbito la cultura industriale. L'autonomia finanziaria e quella nella gestione del personale ci spiegano perché, per tutti gli anni sessanta, la nostra istruzione tecnica abbia primeggiato nel mondo.

Scartai meccanica per via dei miei rapporti infelici con il disegno, scartai metallurgia perché il mondo della siderurgia non mi prendeva e così scelsi elettrotecnica perché incominciavano a prendermi bene sia la scienza sia le sue applicazioni e pensavo che quello potesse essere il modo giusto per coltivarla.

A quei tempi elettrotecnica voleva dire: centrali idroelettriche, grandi macchine, grandi impianti di trasporto e distribuzione. Lo status della disciplina era ben definito sin dal primo novecento; l'elettrotecnica era uguale a se stessa da 50 anni e i laboratori della scuola, nuovissimi, erano assolutamente all'altezza. Ricordo in particolare quello di misure elettriche, molto grande e con un set di macchine disposte prima dei finestroni lungo la via Cavallotti con cui si poteva fare assolutamente di tutto in termini di simulazione degli impianti di produzione ed utilizzo (grandi motori sincroni e asincroni, alternatori, dinamo e motori a corrente continua, il tutto in gruppi che potevano essere interconnessi).

In terza incontrai un professore di lettere di alto valore, il professor Augusto Vegezzi, piacentino di origine, futuro autore di un fortunato testo di storia per i licei e poi lungamente preside del liceo Banfi di Vimercate. Allora a Monza era così, giravano docenti di prima grandezza; al Mose Bianchi c'era Franco Fortini e il professore di filosofia di mio fratello, al Frisi, era Renato Fabietti. Con Vegezzi (intellettuale di sinistra) mi trovai bene perché era un educatore vero che sapeva dare un senso all'insegnamento di Italiano e di storia in un ITIS. Ti faceva discutere, non imponeva; rispettava le mie opinioni allora molto diverse dalle sue. Su sua indicazione lessi Il maestro di Vigevano di Lucio Mastronardi (ma prima chiesi il parere al mio confessore, don Giulio Oggioni, futuro arcivescovo di Bergamo che, essendo villasantesi veniva in oratorio la domenica mattina quando era libero dagli impegni di docenza al seminario di Venegono).

Nei temi, con Vegezzi, mi sentivo libero e così il passaggio in quarta fu traumatico; con l'arrivo del professor Donato Vencia in quarta cambiarono obiettivi, metodi, concezione della cultura e passammo da un bel frizzantino al vino fermo. Nel primo tema in classe mi beccai un bel tre meno meno perché a suo dire ero andato fuori tema. Non mi restava che adeguarmi.

Cambiai la prof di Inglese e arrivò dal Frisi la prof Castoldi (mi pare fosse soprannominata Moby Dick). Era stata la prof di mio fratello e, nonostante l'aura temibile che la circondava, trasmessami anche da mio fratello, non ebbi assolutamente problemi.

Ebbi l'occasione di fare un bel corso di tecnologia in cui studiai gli elementi essenziali delle proprietà dei materiali e dei processi siderurgici (dall'alto forno, ai convertitori, ai forni di fusione) e un corso altrettanto buono di meccanica generale perché allora il perito era pensato come un tecnologo che si specializzava, ma doveva comunque avere una competenza a 360° sulle cose essenziali.

Così, dopo il corso di chimica generale in II, ce ne fu uno di chimica organica e industriale dove ci occupammo dei grandi impianti chimici per la produzione dei composti chimici essenziali per l'industria (acido solforico, acido nitrico, soda caustica, acido cloridrico, ipoclorito di sodio, coloranti) e di tutte le problematiche legate alla produzione e distillazione degli idrocarburi. Avevo acquistato da un compagno di classe un certo numero di reagenti (acidi, basi e sali) e nella cantina di casa (areata da uno sportellino in alto a livello del suolo esterno) mi divertivo con le reazioni. Spettacolare la produzione di ipoazotide (una miscela di ossidi di azoto di un bel colore rosso mattone) che si ottiene facendo reagire trucioli di rame con acido nitrico. Avevo un sale di cobalto che, a seconda della umidità cambiava colore e mi divertivo a scaldarlo in una provetta.

Sempre in cantina mi ero attrezzato un piccolo laboratorio di elettrotecnica messo in piedi recuperando vecchi trasformatori provenienti dalla fabbrica chiusa di mio padre. Con dei raddrizzatori che mi ero procurato ci facevo l'elettrolisi e, con i soli trasformatori, la saldatura ad arco ed esperimenti in cui portavo alla incandescenza fili di rame piazziati su una basetta di legno sostenuti da chiodi che facevano da morsetti e misuravo i tempi necessari per la evaporazione del metallo ad alta temperatura a seconda dello spessore. Negli anni avanti mi sarei dilettato con la radiotecnica e un po' di elettronica: produrre un amplificatore utilizzando le vecchie radio a valvole, costruire una chitarra elettrica.

Un altro laboratorio che ora non si fa più era quello di saldatura; due ore pomeridiane molto divertenti passate a fare pratica con la classe divisa in tre gruppi; un trimestre fiamma ossidrica e cannello ossiacetilenico, un trimestre saldatura ad arco, un trimestre fucina. L'aiutante tecnico che lavorava al maglio era soprannominato Vulcano. Con tutti quei laboratori l'orario scolastico era pesante: 34, 36, 38 ore, ma anche così ci si abituava al futuro lavoro in fabbrica (gestione del tempo e dei ritmi di lavoro).

Last but not least, anzi, l'elettrotecnica: ovvero il testo di Olivieri e Ravelli e l'ingegner Bellini. Oltre all'elettrotecnica generale seguita dalle correnti alternate e trifasi e poi dalle macchine elettriche, c'erano misure elettriche, impianti elettrici e costruzioni elettromeccaniche con altri docenti; ma l'elettrotecnica all'Hens era l'ingegner Bellini. La sua parola, in classe o nei discorsi tra studenti, equivaleva all'ipse dixit (l'ha detto l'ingegner Bellini). Con lui non si pedeva tempo e si lavorava, sin dal primo anno di specializzazione, sulla preparazione alla prova scritta. I conti erano tanti e si facevano con il regolo calcolatore con due o anche tre cifre significative (inclusi i conti che richiedevano la trigonometria).

L'Olivieri e Ravelli, edizione CEDAM marrone scuro, rilegato in tela e cartone a lettere d'oro, tre volumi (generale, misure,  macchine) è stato nella mia formazione quello che, all'università, sono state le Lectures on Physics di Feynman. Bellini faceva lezione; sottolineava le cose essenziali di teoria (tanto c'era l'Olivieri e Ravelli per gli approfondimenti) e poi tante applicazioni. Prendevo appunti e poi li rielaboravo studiando sul testo. Non eravamo in molti a lavorare così, c'era chi si accontentava di riuscire a fare i compiti in classe e c'era chi si faceva aiutare durante i compiti. Io ero per la sistematicità.

Gli altri docenti delle materie di indirizzo non erano di pari valore, ingegneri neo laureati in attesa di assunzione e prestati (senza impegno) all'insegnamento. In terza compresi bene i concetti di intensità di corrente e di differenza di potenziale e mi resi conto della spiegazione demenziale che mi avevano dato in II sugli uccelli posati sui fili di trasporto dell'energia elettrica. La corrente circola se metti a contatto punti a potenziale diverso e se stai su un solo filo sei al potenziale del filo.

Nella primavera del 63 ci fu uncidente importante durante una lezione di educazione fisica al campo di calcio di Triante (docente era il professor Tarca che poi sarebbe diventato uno dei padri dell'ISEF). Ero in azione in velocità e per un difetto di controllo del pallone finii in avanti sulla punta del piede destro. Sentii un bel crack di osso che si rompe, mi ritrovai a terra e poi arrivò il dolore: frattura scomposta di tibia e perone della gamba destra. Ospedale, 20 giorni di trazione, 45 giorni di gambale gessato senza possibilità di appoggio, 30 giorni di stivale e poi altri 20 perché il callo non era giudicato soddisfacente. Totale 115 giorni.

Quando levai l'ultimo gesso il mio polpaccione destro (tutti i Cereda hanno il polpaccione)  era ridotto a un terzo. Era luglio e andammo al mare a Varazze e ricordo che stavo meglio in acqua che a camminare sulla sabbia. Mi sono rimasti un bel callo e un accorciamento di quasi 1 cm e mezzo. Ricordo ancora con terrore i 20 giorni di Ospedale nei cameroni, sempre su schiena, padella e pappagallo. C'era un camionista a cui schiacciarono una gamba con un camion  in manovra mentre lui stava sotto. Gliela amputarono perchè stava andando in cancrena.

Ne parlo perchè, dopo la prima settimana di stivalone, in cui era stato prescritto il riposo a letto, ricominciai ad andare a scuola. Il mio compagno Luigino Sacchi mi veniva a prendere in Lambretta e, in qualche modo si arrivava all'Hens dove mi prendeva tra le braccia e mi portava in tutti gli ambiti in cui non ce la facessi con le stampelle. Altri tempi, ve li figurate con la 626? Luigino insieme al Sem è stato il mio compagno di studi nel triennio. Andavo a casa sua nei pomeriggi in cui non c'era laboratorio e rivedevamo le cose insieme. Ci vedevamo solo per studiare perché lui era imoegnato con gli scout e faceva atletica leggera (lancio del disco).

Intanto mi impegnavo sempre di più in GS e mi apprestavo a fare il caporaggio dell'Hensemberger. La giornata era strutturata così: scuola di mattina, scuola di pomeriggio, un salto in GS prima di cena, studio dopo cena. Mentre, fino a tutta la seconda, nel pomeriggio della domenica andavo al cinema a Villasanta, adesso c'era la caritativa: andavamo nei quartieri in espansione di Cinisello (le coree) a far giocare i bambini intorno a parrocchie che stavano nascendo (Robecco, Bellaria, Cornaggia).

Nell'estate del 63 ci fu anche il trasloco dalla vecchia casa di via Mazzini al condominio Marinella di via Monte Sabotino, dal centro alla estrema periferia, dove c'erano ancora le vecchie cave, luogo impagabile di avventura per mio fratello Fabio. Villasanta finiva al passaggio a livello di viale della Vittoria e più in là c'era solo campagna. Pochi giorni dopo il trasloco morì la nonna Elisa e così non ci furono problemi nella disposizione delle tre camere (una per i genitori e il piccolo Marco e le altre due per noi quattro più grandi). Ironia della sorte il condominio fu costruito dalla impresa di Stefano Mariani, lo storico autista del calzaturificio, e l'acquisto fu reso possibile  dalla generosità del cugino Giancarlo Locati che si stava incominciando ad affermare come ingegnere civile.

La quarta fu un anno di passaggio da tre punti di vista: professionale, cultural-religioso, politico. Sul versante della autonomia mi ero comperato, con i proventi di una borsa di studio, la Lambretta 125, quasi subito truccata a 150. Una borsa da 120 mila lire efra un bel contributo, e ricordandomi della mia storia, da dirigente scolastico dell'Hensemberger mi sono subito dato da fare per rendere disponibili borse di importo significativo per gli alunni meritevoli cercando di trasmettere il messaggio secondo cui ciascuno, nel bene e nel male, è artefice del suo destino. Iniziavo anche a dare le prime lezioni private a studenti dell'Hens delle prime classi, una cosa che ho mantenuto anche da studente universitario.

A scuola si approfondiva la scelta dell'elettrotecnica; aspettavamo i due pomeriggi in cui si sarebbe fatto laboratorio di misure per unire teoria ed applicazione; carini i laboratori di costruzioni elettromeccaniche in cui si iniziava la progettazione e realizzazione di macchine elettriche, quelle che studiavamo sull'Olivieri e Ravelli. In quarta ho costruito un trasformatore dalla progettazione, al dimensionamento e assemblaggio dei lamierini, alla realizzazione degli avvolgimenti.

Sempre sul versante della "cultura tecnologica a 360°" del perito ci fu anche l'esperienza del laboratorio di macchine utensili. La classe era divisa in due gruppi e alternativamente si lavorava al tornio o sulle macchine speciali (fresatrici, piallatrici, trapani). Ricordo di aver visto la prima macchina a controllo numerico che lavorava con nastro perforato (1964) e di essermi stupito nel vedere un tornio con mandrino a revolver che fabbricava bulloni con una serie di passaggi predeterminati in sequenza a partire da un'unica barra cilindrica d'acciaio: la testa e il corpo, il filetto, la svasatura, il taglio con caduta del pezzo e inizio del successivo.

Ad ogni colpo dato alla ruota di comando il portautensili ruotava ed iniziava una nuova operazione e, naturalmente, attraverso connessioni meccaniche opportune si poteva rendere automatica, anche questa operazione. Erano i primi elementi della automazione, ancora rigidamente senza uso della elettronica.

C'è un episodio che serve a spiegare bene che tipo di personaggio stessi diventando. Non ero ribelle, ma intransigente sì. Facevamo un corso di macchine idrauliche e termodinamica (il seguito di quello di meccanica fatto in III) con il solito docente in prestito: questa volta era un fisico, ricercatore del neonato gruppo di Fisica dei Solidi che insegnava per integrare l'assegno di ricerca (si chiamava Robero Oggioni). Persona molto simpatica e alla mano, ma aveva un difetto: appena entrato in classe si metteva davanti ai banchi, apriva il giornale (Il Giorno) e per 5/10 minuti si dedicava alla lettura.

Io stavo al primo banco e la cosa mi dava istintivamente fastidio perché mi sembrava una forma di maleducazione nei nostri confronti; così una mattina con un accendino diedi fuoco, da sotto, al giornale aperto davanti alla mia faccia. Come si sa, se si accende della carta da sotto, viene una bella fiammata; il professore capì che avevamo sbagliato entrambi e aumentò la stima reciproca. Il contrario di ciò che mi accadde l'anno dopo quando, per un episodio di ben minore gravità rischiai di perdere l'anno, come vedremo nel prossimo capitolo. Il professor Oggioni fu il primo fisico conosciuto che faceva il fisico. Esisteva gente che nella vita faceva lo scienziato. La cosa mi piacque molto.

Sempre in quell'anno ebbi il primo contatto con la matematica seria, l'analisi matematica, dopo che già in terza avevamo fatto l'essenziale di numeri complessi e geometria analitica. Il professore era Bellìa, un catanese con un accento fortissimo che sarebbe poi rimasto all'Hensemberger per tutta la sua vita. Il corso di matematica finiva in quarta e, pur senza grandi approfondimenti teoricci ma badando al significato di derivata ed integrale, appresi alcune tecniche che, unite alla padronanza dei numeri complessi, mi consentirono una certa autonomia nello studio delle correnti alternate e dei sistemi trifasi.

Fu una piacevole sorpresa scoprire che, appresi i fondamenti, si poteva fare da sè realizzando in maniera elegante risultati applicabili alle materie di indirizzo senza dover usare le semplificazioni concettuali dell'Olivieri e Ravelli (dove non era previsto l'uso dell'anaqlisi).  Mi è rimasta in mente la lezione dedicata alla definizione di limite: voi non sareste mai in grado di capirla, perciò ve la detto e voi imparatela a memoria. Non so dirvi se avesse ragione; noi periti eravamo un po' rozzi e amanti del lato pratico delle cose, ma a Fisica l'impatto con gli aspetti teoretici dell'analisi fu drammatico e da docente di liceo mi impegnai a fondo perché le difficoltà concettuali non fossero eluse ma comprese.

Nel corso della IV e della V abbiamo fatto diverse visite a grandi aziende del territorio.

  • Alla CGS di  Monza si fabbricavano ancora gli stumenti di precisione con cassetta in legno; gli stessi che usavamo nel laboratorio di misure. Vedemmo la catena per la produzione dei contatori a disco commissionati dalla Edison, poi ENEL, per la fatturazione dell'energia elettrica
  • Alla Ercole Marelli di Sesto ci fu il contatto con la grande industria elettromeccanica: grandi motori e alternatori per le centrali. In quegli anni venivano realizzati i primi turboalternatori con dei rotori lunghi 7-8 metri che dovevano fare 3'000 giri al minuto. Scoprimmo le limitazioni nel diametro del rotore (non più di 1 m) per gli effetti di piegatura al centro e il rischio che il rotore, ad alta velocità si sradicasse dai cuscinetti. Scoprimmo che uno dei problemi, nella lunghezza (potenza) del rotore era quello della tenuta dell'isolamento dei conduttori alla prevista temperatura di funzionamento (intorno agli 80-90°).
  • Alla Magrini di Bergamo vedemmo gli interruttori di potenza per le centrali e la sala prove.
  • Alla Philips di Monza visitammo la catena di montaggio per la produzione dei tubi a valvola. C'erano dei grandi banchi circolari con le operaie tutte in camice bianco che, in ambiente protetto, montavano a mano i diversi componenti della valvola (catodo, griglie, anodo). Lo stesso carosello aveva fiamme a gas e quando il lavoro era finito si montava il bulbo in vetro, si faceva il vuoto e poi il bulbo veniva tappato a caldo. Fu il primo ambiente pulito che vidi nell'industria e mi tornò in mente anni dopo quando, alla SGS (ora ST Microelectronics), mi capitò di entrare nei reparti di produzione delle fette di silicio dove non può entrare neanche un granello di polvere.

E' impressionante come di queste cose, nonostante l'alternanza scuola lavoro, oggi se ne facciano meno di allora tra prolematiche di sicurezza, scuola di massa e abbassamento della qualità, sia degli studenti sia della offerta formativa.

Sul piano culturale e religioso mi occupai di costituire un significativo gruppo di GS interno alla scuola (amici che rivedo ancora con piacere e che hanno preso strade molto diverse) e intanto approfondivo alcune tematiche legate alla fase conclusiva del Concilio Vaticano II, leggevo le encicliche che ci aveva lasciato papa Giovanni (ormai morto) e trovavo un po' esitante e non comunicativo il suo successore Montini. Nel mio processo di crescita culturale cominciavo ad avere l'impressione che la politica culturale di GS fosse un po' chiusa sul versante sociale come ho già raccontato (e il mio alter ego era il Sem Cavalletti).

La domenica mattina i giessini andavano a messa alle 10:30 nella chiesa di San Pietro Martire a metà di via Carlo Alberto. Da questo appuntamento, nell'anno successivo, ne seguì un altro; finita la messa, con alcuni amici ci spostavamo in via Dante al circolo la Brianza a frequentare le riunioni della federazione giovanile socialista (veniva da Milano un deputato lombardiano che si chiamava Cresco e un avvocato amministrativista destinato a fare carriera Felice Besostri).

Iniziò così il mio spostamento a sinistra. Per qualche mese, all'inizio del 64, cercando di imitare mio padre, che era stato fascista e conservava un rapporto di adesione al fascismo nella sua versione sociale e repubblicana, mi misi a leggere il Secolo d'Italia comperato all'edicola al semaforo di via Prina con via Manara, dove c'era un edicolante contrabbandiere e fascista che mi guardava con simpatia.

Leggevo anche, episodicamente, La Discussione (il settimanale della DC che arrivava in abbonamento a casa di Sacchi). Erano i primi passi, ancora confusi verso la passione politica. Nell'estate del 1963 ci fu la morte di papa Giovanni e in quella del 1964 quella di Togliatti. Fui molto impressionato dalla partecipazione popolare ai funerali di cui lessi le cronache su Il Giorno ai giardinetti della Villa Reale. La domenica comperavo l'Avanti che, nella edizione domenicale, era molto ricco di articoli di storia e cultura. Di lì a poco avrei scoperto Rinascita.


In prima fila accosciati: Sergio Grandi, Carlo Carzaniga, Giorgio Torriani, Luigi Beretta, Luigi Sacchi, Ermes Nava, Beniamino Parolini, Enzo Grassi, Claudio Cereda

In seconda fila: Sergio Refaldi, Mario Segalini, Dario Brioschi, Natale Ornago, Roberto Crippa, Giuseppe Cavenaghi, Carlo Pioltelli, ing. Galasso, Luigi Mariani, Moreno Trevisi, prof. Antonio Bellia, Luigi Arosio, prof. Mario Truci, Alberto Sala, Felice Aresi, prof. Donato Vencia, Angelo Monti, Luigi Assali, Mario Calloni, Marco Lissoni, Giuseppe Cavaletti

sullo sfondo: Andrea Mutti, Danilo Scamardi


Ultima modifica di Claudio Cereda il 21 maggio 2020


La pagina con l'indice della mia autobiografia da cui potete scegliere i capitoli da leggere


 

Info su Claudio Cereda

nato a Villasanta (MB)il 8/10/1946 | Monza ITIS Hensemberger luglio 1965 diploma perito elettrotecnico | Milano - Università Studi luglio 1970 laurea in fisica | Sesto San Giovanni ITIS 1971 primo incarico di insegnamento | 1974/1976 Quotidiano dei Lavoratori | Roma - Ordine dei Giornalisti ottobre 1976 esame giornalista professionista | 1977-1987 docente matematica e fisica nei licei | 1982-1992 lavoro nel terziario avanzato (informatica per la P.A.) | 1992-2008 docente di matematica e fisica nei licei (classico e poi scientifico PNI) | Milano - USR 2004-2007 concorso a Dirigente Scolastico | Dal 2008 Dirigente Scolastico ITIS Hensemberger Monza | Dal 2011 Dirigente Scolastico ITS S. Bandini Siena | Dal 1° settembre 2012 in pensione | Da allora si occupa di ambiente e sentieristica a Monticiano e ... continua a scrivere
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3 risposte a 1962-1964: elettrotecnica il secondo biennio all’Hensemberger

  1. Paolo Cadorin scrive:

    io, invece, con la Castoldi ho avuto una brutta esperienza. In prima ero un suo pupillo tant’è che quando aveva invitato De Maio in classe per far vedere come si era preparati in inglese fui chiamato alla lavagna come studente modello. In seconda gli ero caduto giù dal birolo e mi diede inglese a settembre, rovinando così il mio cursus studiorum nell’istituto, visto che in tutti i cinque anni sono uscito con la media del sette. La Pasini ed altri prof cercarono di darmi una mano ma invano. Per il mio fiuto e per un sesto senso che mi ha sempre accompagnato nella vita, andai a ripetizione e mi feci fare il tema At the station. Questo fu poi il tema in inglese dato a settembre. Nello scritto presi otto e la Castoldi mise solo una virgola, tanto per segnare la presenza. In orale fu un disastro: lei andava sempre a fare le ferie in Inghilterra ed in luoghi diversi e così cambiava la pronuncia. Feci un dettato pieno di errori. Passai solo per il tema. In terza ritornai suo pupillo perchè mi ero applicato in inglese sin dall’inizio. Quando ci fu l’interrogazione di punizione caduta il giorno seguente per l’orario definitivo dato all’improvviso, dei 27 alunni interrogati soltanto due presero la sufficienza: io ed un altro. Per l’esattezza sei meno meno poichè non volle darmi la soddisfazione di essermi preparato. Da qui ritornai, come detto, in auge.

  2. Paolo Cadorin scrive:

    caro claudio non parli della prof di inglese castoldi. che ricordi hai?

    • Claudio Cereda scrive:

      Non ho parlato della prof di Inglese Castoldi perché è stata con me solo in III mentre in prima e seconda c’era una morettina magra di cui non ricordo il cognome. Con la professoressa Castoldi sono stato benissimo anche se al suo arrivo ero molto intimorito perché era la prof di mio fratello al Frisi e la fama era di una persoa dura. Non è stato per niente così e mi sono trovato molto bene. L’Inglese non è comunque mai stato un problema anche se alle medie, come molti, avevo fatto francese.

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