Scuola pubblica 2 – un po’ di storia

Le istituzioni scolastiche attuali sono la risultante di una poligonale di segmenti. Essi sono:

  • lo Stato-nazione,
  • l’Enciclopedia,
  • la prima rivoluzione industriale,
  • la Rivoluzione francese.

La nascita dello Stato-nazione è l’esito di una serie di lunghi e sanguinosi conflitti, di cui l’ultimo è la tragica Guerra dei trent’anni (1618-1648), conclusasi nel 1648 con la pace di Westfalia.

Lo Stato incomincia a costituirsi come apparato politico-amministrativo unitario, non è più proprietà privata di un Re o di un Principe. Un processo convergente si muove dal basso: si passa dalla moltitudine dei sudditi, suddivisi in “stati” e corporazioni, al popolo-nazione.

Di qui in avanti gli Stati hanno bisogno di “cittadini”. Le “persone”, con tutta la varietà e ricchezza di singolari e irriducibili determinazioni fisiche, psichiche, devono essere trasformate in cittadini uguali.

Le istituzioni scolastiche sono uno degli strumenti fondamentali di questa trasformazione della persona in cittadino. Il cittadino ha due facce: quella della persona, che deve stare nel cono d’ombra privato, e quella del cittadino, che viene esibita nell’arena pubblica.

L’Encyclopédie ou Dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers incarna l’idea che l’acquisizione del sapere sia un movimento di liberazione umana e che, pertanto, sia/debba essere accessibile a tutti.

L’Enciclopedia fornisce i programmi di studio, le discipline, le materie alla scuola statale, la quale nasce con un fondamentale obiettivo: quello di trasformare le persone in cittadini fedeli allo stato nazionale.

La prima rivoluzione industriale, mentre sottoproduce una polarizzazione sociale tra proprietari dei mezzi di produzione e proletariato, richiede sempre di più, soprattutto nella sua seconda fase ottocentesca,  una crescente alfabetizzazione di base.

Formare cittadini/sudditi, tecnici, operai specializzati, amministratori e buoni soldati richiede la costruzione di un sistema di istruzione e di educazione nazionale. Sono i francesi a costruire il modello di sistema scolastico, che dura fino a tutt’oggi.

La Rivoluzione francese: il 4 settembre 1791 l’Assemblea nazionale si pronuncia per un sistema di istruzione pubblica gratuito, aperto a tutti i cittadini, che poi Condorcet  preciserà suo Rapport sur l'instruction publique del 1792.

Il 19 aprile 1802 Napoleone, sulla base del Rapporto Antoine-François, affida ai Comuni le scuole primarie, le scuole secondarie ai Comuni o a soggetti privati, allo Stato i Licei e le Scuole specializzate. Il 10 maggio 1806 viene emanato un Decreto sull’Università imperiale. Il 17 marzo 1808 la legge attuativa disegna l’architettura istituzionale del sistema, definisce il curriculum del corpo insegnante e i meccanismi dell’Agrégation, cioè del reclutamento.

Alla fine del breve itinerario rivoluzionario giacobino e napoleonico, la collocazione del sistema scolastico e la sua funzione sociale appaiono rivoluzionati rispetto a tutto il periodo storico precedente: l’istruzione come instrumentum regni al posto della religione; le scuole come santuari del sapere al posto dei monasteri e delle scuole ecclesiastiche; il curriculum definito dall’orizzonte culturale dell’Enciclopedia.

Se consideriamo la poligonale di ogni sistema di istruzione (il curriculum, gli ordinamenti, la governance, il personale), il sistema di istruzione francese funge da modello per l’intera Europa.

Integrate e potentemente rafforzate le sue fondamenta ideologiche da G. W. F. Hegel – lo Stato è “il divino nel mondo”  e, pertanto, compito dell’istruzione/educazione è costruire “il divino nel mondo” – il sistema di istruzione propone come asse culturale e perciò come curriculum il sapere continuamente in crescita dell’Enciclopedia, che viene amministrato e somministrato in maniera programmata, centralizzata, omogenea, eguale per tutti sull’intero territorio nazionale.

l'Italia del Risorgimento

Ne consegue un’organizzazione didattica per materie e per ore di insegnamento/apprendimento parcellizzata e tayloristica.  In Italia il marchese Gabrio Casati, milanese, già presidente del Governo provvisorio dopo le Cinque giornate di Milano, nominato ministro dell’Istruzione dal nuovo capo del governo Alfonso Lamarmora, dopo le dimissioni per protesta di  Cavour contro l’armistizio separato di Villafranca del 12 luglio 1859, si reca dal Re a illustrare il proprio progetto di legge di riforma del sistema educativo destinato a diventare la prima legge della scuola dell’Italia unita.

Tre sistemi principali si offrivano da abbracciare: quello d’una libertà assoluta, la quale, come in Inghilterra, esclude ogni ingerenza governativa; quello in cui, come nel Belgio, è concesso agli stabilimenti privati di far concorrenza cogli istituti dello Stato; quello, infine, praticato in molti paesi della Germania, dove lo Stato provvede all’insegnamento non solo con istituti suoi propri, ma ne mantiene eziandio la direzione superiore, ammettendo però la concorrenza degli insegnamenti privati con quelli ufficiali”.

Esclusi i primi due modelli, per i rischi che una “libertà illimitata” avrebbe fatto correre al regime e al sistema politico, “restava da abbracciare il partito più sicuro, vale a dire un sistema di libertà media, sorretta da quelle cautele che la contengono”. Dunque, è il modello napoleonico-prussiano quello che il Regno sardo-piemontese si accinge ad adottare con Regio Decreto legislativo del 13 novembre 1859, n. 3725, entrato in vigore con il Decreto applicativo del 19 settembre 1860, e pertanto esteso con l’unificazione a tutta l’Italia di allora. per costruire un assetto istituzionale e amministrativo, fortemente centralistico e burocratico-piramidale, il cui modello organizzativo è l’esercito.

Il liberale della Destra storica Leopoldo Galeotti criticherà fortemente lo statalismo assoluto nella relazione della Commissione per il Bilancio della Pubblica istruzione: “L’istruzione pubblica diventa una macchina, che in certe ore del giorno, in tutti i luoghi, deve agire con la medesima forza, deve essere messa in moto dagli stessi maestri, deve produrre i medesimi effetti onde i cittadini non altro insegnino, né altro imparino se non quello che il governo vuole si sappia, e nel modo e nella misura in cui egli vuole che s’insegni e s’impari”.

da Gentile allo Stato democratico

Sulla stessa linea proseguirà il liberal-conservatore Giovanni Gentile che Mussolini chiamò a rifondare il sistema di istruzione agli inizi del fascismo.

Con la Legge 3 dicembre 1922, n. 1601, il governo di Mussolini si fa conferire i pieni poteri legislativi in materia scolastica. Nel 1923 da febbraio a dicembre vengono emanati 12 Regi Decreti, di cui dieci riguardano la scuola elementare.

La novità del fascismo rispetto allo statalismo liberale-gentiliano consiste in un’accentuazione della dimensione educativa dello Stato e nel controllo partitico-ideologico e amministrativo, la cosiddetta fascistizzazione.

Il governo esige che la scuola in tutti i suoi ordini e gradi e in tutti i suoi insegnamenti educhi la gioventù italiana a comprendere il fascismo, a rinnovarsi nel fascismo, e a vivere il clima storico creato dalla rivoluzione fascista”, così Mussolini, in un discorso a Milano il 23 marzo 1923.

La Carta della scuola (19 gennaio 1939) di Giuseppe Bottai, ministro dal 1936 al 1943, tenta di completare la rivoluzione fascista nel sistema educativo nazionale.

Occorre prendere atto che nel dopoguerra, nonostante l’ispirazione sussidiaria del mondo cattolico-democristiano  – che ha conquistato per i decenni successivi la titolarità del Ministero dell’Istruzione – la continuità del sistema ha prevalso sulle esigenze di cambiamento, che pure erano state avanzate dall’interno di quel mondo, in particolare dal cosiddetto Codice di Camaldoli, da De Gasperi e dalla Commissione Agostino Gemelli.

Di qui le difficoltà crescenti del sistema scolastico italiano ad affrontare le sfide avanzate dalla seconda, dalla terza e dalla quarta rivoluzione industriale. L’inizio della crisi del sistema incomincia prima della globalizzazione. Fu la Legge 31 dicembre 1962 n. 1859, che istituiva  la Scuola media unificata, a far esplodere la vecchia scuola elitaria a gentiliana e far entrare masse di studenti e di insegnanti.

la scuola di massa

Ma la struttura centralistico-burocratica, i programmi, gli ordinamenti, la preparazione degli insegnanti non cambiarono per nulla. Il Sessantotto ha tra le proprie cause, oltre ai mutamenti sociali e culturali degli anni ‘50/’60, la crescente scolarizzazione di massa, che si riversa dalla scuola media unificata fin dentro le università.

Di qui in avanti emerge con forza maggiore la contraddizione tra la spinta egualitaria e universalistica e il perdurante assetto statal-centralistico sia sul piano amministrativo che su quello pedagogico-didattico.

Mentre don Lorenzo Milani denuncia, nella sua Lettera ad una professoressa, pubblicata postuma nel 1967, la struttura classista della scuola italiana e indica quale prospettiva la scuola su misura di ciascuno: “una scuola per tutti, una scuola per ciascuno”, il sistema educativo italiano si apre precipitosamente all’ingresso di grandi masse di studenti e di insegnanti, mentre la vecchia qualità gentiliana, possibile solo per pochi, si abbassa costantemente.

L’utopia di una scuola di massa e di qualità non si realizza. La storia successiva è quella di almeno una decina di leggi e progetti di riforma che non approderanno mai a nulla. La più importante delle proposte è quella di Luigi Berlinguer sull’autonomia scolastica, con il DPR. N. 275 dell’8 marzo 1999. Il comma 3 della Legge 107 del 13 luglio 2015 (la Buona Scuola) lo incorpora nella legge.

Nel DPR e nelle letture successive l’autonomia didattica, organizzativa, finanziaria, di ricerca sono individuate quali strumenti essenziali per attuare l’intera impresa educativa e didattica della scuola.

Intanto la riforma del Titolo V della Costituzione, approvata il 3 giugno del 2001 dal centro-sinistra, distingue per la prima volta in Costituzione tra Stato e Repubblica. Essa è assai più larga dello Stato. Il “pubblico” cessa di ridursi allo “statale”.

l'inerzia dell'apparato e le resistenze di una certa sinistra

Tuttavia, nonostante l’evidente entropia del sistema, nonostante lo sforzo della “Buona scuola”, il sistema scolastico non cambia, le riforme vanno a schiantarsi sugli scogli, dopo lunga e perigliosa navigazione.

La forte resistenza ideologica della sinistra politica e sindacale, intrecciata con quella burocratica degli apparati ministeriali e delle loro diramazioni fino in ogni scuola, si svolge lungo tre linee.

La prima è quella dell’ossessione della privatizzazione/aziendalizzazione del sistema pubblico di istruzione. Proporre autonomia, potere del dirigente, valutazione, merito, donazione liberale… significa per una diffusissima vulgata distruggere la scuola pubblica.

Alle spalle sta una metafisica neppure tanto occulta, secondo cui il modello gentiliano continua ad essere il migliore possibile. Si può solo adeguare, ritoccare, aggiornare, ma l’impianto deve restare immodificato. L’impasto tra Giovanni Gentile, Concetto Marchesi e sindacalismo corporativo sta alla base di questo blocco ideologico, le cui origini sono lo statalismo hegelo-napoleonico, passato immodificato nel patrimonio culturale della sinistra politica e sindacale.

Pertanto, l’autonomia o è mero decentramento funzionale dell’apparato centrale del Ministero oppure rischia di consegnarsi alle cattive pulsioni egoistiche della società civile. La quale, appunto, ha bisogno di essere hegelianamente disciplinata dallo Stato. Insomma: la scuola è un pezzo dell’Amministrazione dello Stato, non un’istituzione della società civile. Che questo assetto abbia sottoprodotto quella che Luigi Berlinguer ha definito recentemente la “scuola di classe” pare non turbare la falsa coscienza della sinistra radicale e/o populista e dei sindacati.

La seconda è quella dell’egualitarismo burocratico e pauperistico. Se la scuola ha il compito di rimediare alle diseguaglianze socio-culturali dei ragazzi, non ne consegue che gli insegnanti debbano svolgere tutti un compito eguale.

Eppure, anche loro sono e devono essere eguali. Non c’è, dunque, nessun merito da individuare, nessuna graduatoria da introdurre, nessuna differenziazione di carriere e di stipendi. Naturalmente, si tratta di eguaglianza verso il basso, tendenzialmente sul livello degli ultimi, tra gli studenti e tra gli insegnanti. Qui il livellamento consiste nel riconoscere a tutti lo stesso merito, tanto agli insegnanti eroici, quanto ai “lavativi” o ai mediocri. E’ il vecchio socialismo/comunismo pauperistico.

La terza è l’assemblearismo, che proviene dal ’68. I Decreti Delegati del 1973/74 lo hanno addomesticato, regolamentato e trasformato in parlamentarismo.

Nelle scuole ciò significa che l’unico organo rappresentativo e di comando è il Collegio dei docenti: un posto dove tutti parlano, nessuno decide, nessuno si assume responsabilità, nessuno governa.

E’ significativo e altamente sintomatico che le stesse accuse fatte alle ipotesi di riforma politico-istituzionale ed elettorale siano rimbalzate alla lettera nelle scuole: no a un uomo solo al comando.

Alla fine, inevitabilmente, qualcuno governa: si tratta degli automatismi del sistema amministrativo e delle RSU. Amministrazione e sindacati sono il potere reale nelle scuole.

Quanto al dirigente, meno si muove e meglio è. Donde la guerra scatenata contro l’ipotesi del preside, che assume quote di personale, che destina gli insegnanti secondo le esigenze del POF triennale, che valuta il merito e distribuisce i premi in denaro.

La propaganda sindacale lo ha trasformato nella caricatura del “preside-sceriffo”. La realtà di questi giorni di “chiamate dirette” ci dice il contrario: che il preside continua ad essere è un passacarte del Ministero e delle RSU.

(2 – continua) – L'articolo precedente è Scuola pubblica 1 – la macchina dell’istruzione statale


Pensieri in libertà ha ritenuto opportuno commissionare a Giovanni Cominelli, esperto riconosciuto del settore dell'istruzione, una serie di articoli che servano a gettare qualche sassolino nelle acque stagnanti del mostro sistema di istruzione ormai impegnato, complice il mondo dell'informazione, a discutere solo di immissioni in ruolo, concorsoni, deportazioni, ...

Lo scopo è quello di svolgere qualche ragionamento a mente aperta sui nodi di fondo del sistema e sulle ipotesi di miglioramento. Altri contributi sono bene accetti.

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Info su Giovanni Cominelli

Giovanni Cominelli, iscritto a Filosofia all’Università Cattolica di Milano dal 1963 al 1965, alla Frei Universität nel 1965/66, laureato in filosofia con Enzo Paci all’Università statale di Milano nel marzo del 1968. Negli anni ’70 é stato membro della Segreteria nazionale del Movimento studentesco/Movimento lavoratori per il Socialismo. Eletto nel 1980 in Consiglio comunale a Milano per l’MLS-PDUP nel 1980, nel 1981 è subentrato come Consigliere regionale a Luciana Castellina, fino al 1990. Nel novembre del 1982 è entrato nel PCI, su posizioni riformiste e miglioriste. E’ uscito dal PCI-PDS nel 2000, aderendo ai Radicali fino al 2004. Iscritto al PD dal 2015. Esperto di politiche scolastiche, dal 1985 al 2000 responsabile scuola del Pci-Pds-Ds in Lombardia e membro della Commissione nazionale scuola. Membro del Gruppo di lavoro per la Valutazione, istituito nel 2001 dal ministro Moratti, fino al 2004. Dal 2002 al 2004 membro del Comitato tecnico scientifico dell’Invalsi, poi consulente per la comunicazione fino al 2005. Dal 2003 al 2005 ha organizzato la manifestazione Job&Orienta della Fiera di Verona dedicata all’istruzione. Membro del Cda dell’Indire dal 2005 al 2006, è stato responsabile delle politiche educative della Compagnia delle Opere dal 2005 al 2007 e della Fondazione per la Sussidiarietà fino al luglio 2010. Ricercatore presso il Cisem nel 2010. Svolge attività di formazione nelle scuole. Collabora alla Rivista mensile Nuova secondaria. Ha scritto di politiche educative su Il Riformista, Tempi, Il Foglio, Avvenire, Il Sole 24 Ore e i libri La caduta del vento leggero (2007) e La scuola è finita… forse (2009). Oggi editorialista de L’ECO DI BERGAMO e di santalessandro.org, settimanale della Diocesi di Bergamo. Scrive sul Sussidiario.
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