La vecchia sinistra e l’irrefrenabile tendenza al suicidio – di Giovanni Cominelli

Partito e faziosità. Perché la sinistra in Italia manifesta una tendenza irrefrenabile alla frammentazione suicida? La spiegazione che l’uomo della strada si dà è semplice: politica vuol dire partito, partito vuol dire “parte” e “fazione”. Di più: la natura umana, compresa quella dei politici, è fatta di ambizioni e di libido imperii. Sempre è stato, sempre sarà. Troppo semplice per essere vero.

L’idea di “sinistra” è entrata in crisi. Il fatto è che, dopo il 1989, data dell’implosione del sistema degli stati comunisti, è finito un secolo e mezzo di storia della sinistra europea, incominciata con il Manifesto del Partico comunista del febbraio 1848. Alla fine di questa storia, è saltato il concetto di sinistra, così come era stata pensata. Così, in discussione non c’è soltanto se le politiche siano o no “di sinistra”, ma, più radicalmente, che cosa sia “sinistra”. È a partire dal trauma del 1989 che risultano più comprensibili le convulsioni dentro il PD e alla sua sinistra.

La storia per capire. Fino al 1848, la gerarchia dei valori-vincoli della sinistra era stata quella canonizzata dalla Rivoluzione francese: liberté, égalité, fraternité. Marx la capovolse: prima la fraternité (quella della ”classe” del proletariato sfruttato), poi l’égalité di tutti i cittadini (dalla quale, per tutto il lasso di tempo del socialismo, prima dell’arrivo del paradiso terrestre del comunismo, sono esclusi i cittadini-proprietari dei mezzi di produzione), poi la liberté.

Questa è stata la piattaforma del movimento operaio, prima socialista e, dal 1921, comunista. Non senza importanti variazioni: il Programma di Gotha del 1875 della nascente socialdemocrazia tedesca fu criticato da Marx, perchè alla dittatura del proletariato preferiva la democrazia parlamentare per realizzare i fini del socialismo. Ciò che univa – ed ha continuato a farlo fino ad oggi – la socialdemocrazia classica e i Partiti comunisti europei era il riferimento al proletariato – poi classe operaia, poi lavoro, poi lavori – quale base sociale e soggetto ontologico e storico della sinistra. Chi è di sinistra, deve fare/dire per i lavoratori. Se non fa/dice, non è di sinistra. Peggio: è un traditore della sinistra.

Chi non è di sinistra. Prima la libertà, poi la giustizia. Perciò non sono di sinistra Blair, Valls, Macron, Schroeder; non era di sinistra Craxi, non lo è Renzi. Questi apostati e traditori del vangelo marxiano, infatti, hanno osato rimettere sulla sua base più propria la piramide rovesciata della Rivoluzione francese: prima la libertà, prima la persona, poi seguono le politiche di eguaglianza e di solidarietà.

La lotta per la libertà – “libertà da” e “libertà di”- è un presupposto e un vincolo per le questioni di giustizia. La collocazione nella storia, la cultura politica, i programmi non si costruiscono più a partire da una classe sociale determinata, ma dalle persone, intese come cittadini: cittadini-bambini, cittadini-studenti, cittadini-operai, cittadini-imprenditori, cittadini-giornalisti, cittadini-anziani…

Il cittadino-lavoratore non ha più la primogenitura storica della liberazione umana e tutti gli altri non sono più ridotti a semplici alleati o compagni di strada. Il programma di governo nasce al punto di intersezione tra necessità/bisogni/domande dei cittadini e la tradizione intellettuale e etica che proviene dalla storia culturale europea, ebreo-classico-cristiana.

Essa ha sullo sfondo un’idea della storia umana, e in prima fila, un’idea della persona come “individuo attraversato dal suono dell’altro” e del suo destino fallibile su questa terra. C’è un pensiero che ritiene, con Kant, che “l’uomo è un legno storto, dal quale non si può trarre nulla di diritto” e un pensiero che si figura come onnipotente, per il quale l’uomo si può raddrizzare, “a sua insaputa”, gli piaccia o no! La politica come ortopedia giacobina e leninista.

Le scomuniche da parte della vecchia sinistra: Renzi è di destra come Berlusconi. Dal primo pensiero nasce una sinistra interclassista e post-classista, quanto all’elettorato, e cristiano-umanista-liberale, quanto alla tavola dei valori. Contrastata: i vari Sanders, Corbyn, Hamon, Lafontaine, Bersani, D’Alema… ancorati alla vecchia sinistra di classe “pre-‘89”, dispensano quotidianamente condanne per eresia.

L’Adversus Haereses di S. Ireneo, scritto contro “la falsa gnosi”, pare essere il loro modello letterario. La riduzione della diversità di opinioni a tradimento e a cedimento morale non è l’effetto di un’intemperanza polemica, che vìola il galateo politico. È la conseguenza logica della visione della storia, che la sinistra di classe persegue imperterrita: chi passa dalla “classe” all’interclassismo e dal “partito di classe” al “partito pigliatutto” – il partito della nazione – fuoriesce dai binari della Storia progressista, retrocede nelle trincee della conservazione e della reazione. È la falsa gnosi. Renzi, dunque, è di destra come Berlusconi.

La vecchia sinistra destinata a spaccarsi. Solo che questo ostinato e pigro dogmatismo, se sottoproduce sempre nuove intransigenze e nuove fratture, contiene anche una clausola di dissolvenza. Infatti, se ti metti sulla via dei Catari, incontri sempre un cataro più cataro che ti epura. Così pressapoco Nenni, scolpendo in un aforisma la storia secolare della sinistra. Donde partitini, movimenti, sigle in dissolvenza.

Eppure, la fine della classica distinzione tra destra e sinistra, non significa né la fine della storia né la fine del conflitto sociale per una più equa spartizione delle risorse del pianeta. Semplicemente, nascono nuove fratture e nuovi crinali, rispetto ai quali ricollocarsi. Su tutti, un crinale antico dell’avventura umana: pace o guerra? Oggi si articola in dilemmi cogenti e drammatici: globalismo o nazionalismo, governo del mondo o sovranità nazionali, società aperte o chiuse?…

La sinistra che sta con Trump, con il protezionismo, contro la libertà di circolazione di uomini e merci è di destra o di sinistra? È di sinistra “declinare a sinistra” il protezionismo di Trump, come suggerisce Bersani? La sinistra può essere nazional-socialista? L’avvento di Trump sulla scena mondiale costringe tutti a rivedere i paradigmi, che da oltre un secolo a questa parte, hanno presieduto alla formazione dei poli politici di destra e di sinistra. Insomma: la canzone di Gaber del 1994 su “cos’è la destra, cos’è la sinistra” aveva alle spalle una percezione meno fatua di quanto si attribuisse all’epoca al cantautore, subito accusato di essere un voltagabbana..

Bastano le motivazioni ideologiche per spiegare la frammentazione settaria a sinistra? Certo che no. Esse camminano pur sempre sulle gambe degli uomini. In tempi di crisi dei dogmi secolari della sinistra riacquista un peso specifico maggiore al “fattore umano”: l’ambizione personale, la brama di potere, la vendetta e la rivalsa… Ma il fattore umano è solo il cerino che ha acceso la miccia corta della vecchia sinistra del nuovo millennio.

Sulla soglia del quale, Jean Guitton – morto nel 1999 – ha scritto: “Stiamo entrando in un tempo metafisico…”.

 

Info su Giovanni Cominelli

Giovanni Cominelli, iscritto a Filosofia all’Università Cattolica di Milano dal 1963 al 1965, alla Frei Universität nel 1965/66, laureato in filosofia con Enzo Paci all’Università statale di Milano nel marzo del 1968. Negli anni ’70 é stato membro della Segreteria nazionale del Movimento studentesco/Movimento lavoratori per il Socialismo. Eletto nel 1980 in Consiglio comunale a Milano per l’MLS-PDUP nel 1980, nel 1981 è subentrato come Consigliere regionale a Luciana Castellina, fino al 1990. Nel novembre del 1982 è entrato nel PCI, su posizioni riformiste e miglioriste. E’ uscito dal PCI-PDS nel 2000, aderendo ai Radicali fino al 2004. Iscritto al PD dal 2015. Esperto di politiche scolastiche, dal 1985 al 2000 responsabile scuola del Pci-Pds-Ds in Lombardia e membro della Commissione nazionale scuola. Membro del Gruppo di lavoro per la Valutazione, istituito nel 2001 dal ministro Moratti, fino al 2004. Dal 2002 al 2004 membro del Comitato tecnico scientifico dell’Invalsi, poi consulente per la comunicazione fino al 2005. Dal 2003 al 2005 ha organizzato la manifestazione Job&Orienta della Fiera di Verona dedicata all’istruzione. Membro del Cda dell’Indire dal 2005 al 2006, è stato responsabile delle politiche educative della Compagnia delle Opere dal 2005 al 2007 e della Fondazione per la Sussidiarietà fino al luglio 2010. Ricercatore presso il Cisem nel 2010. Svolge attività di formazione nelle scuole. Collabora alla Rivista mensile Nuova secondaria. Ha scritto di politiche educative su Il Riformista, Tempi, Il Foglio, Avvenire, Il Sole 24 Ore e i libri La caduta del vento leggero (2007) e La scuola è finita… forse (2009). Oggi editorialista de L’ECO DI BERGAMO e di santalessandro.org, settimanale della Diocesi di Bergamo. Scrive sul Sussidiario.
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4 risposte a La vecchia sinistra e l’irrefrenabile tendenza al suicidio – di Giovanni Cominelli

  1. Luciano Aguzzi scrive:

    Non capisco se l'articolo ha o no una conclusione o se è solo una serie di considerazioni, le quali, distribuite in modo rettorico/logico non chiaro, non mi permettono di capire ciò che Cominelli dice come constatazione storica neutrale (dal suo punto di vista per me molto discutibile), come sua critica (magari ironica, ma non è chiaro), o come considerazione valida anche come proposta. In sostanza non dice nulla, o forse dice che non si può dire nulla, sul perché della frammentazione della sinistra, né dice nulla sulla validità o meno delle categorie di sinistra / destra.
    Se la cosiddetta sinistra non avrà il coraggio di essere un po' più radicale nella sua analisi, non arriverà mai a capire quello che succede  e continurà a consolarsi o disperarsi con bla bla bla inutili.
    Destra / sinistra non hanno significato logico (né in senso storico, né in senso sociologico, né in senso politico). Non sono categorie analitiche che possano servire un qualunque discorso scientifico; sono – e sono sempre state, dal loro sorgere nel corso della rivoluzione francese – categorie polemiche, di propaganda, di ideologia, di etichettatura, di narrazione autoreferenziale di sé e del nemico.
    In sostanza è di sinistra chi si considera di sinistra o è considerato di sinistra (come riconoscimento positivo o negativo che sia). Va da sé che, trattandosi di un'etichetta polemica/soggettiva, c'è molta diversità su chi e che cosa considerare di sinistra o di destra. Ad esempio: lo stalinismo è di sinistra o di destra? Se si risponde che è di sinistra, allora è auspicabile che la sinistra scompaia dalla faccia della terra, se si risponde che è di destra allora si rovescia tutta una tradizione e narrazione storica propria della sinistra. Se si risponde che si tratta di una sinistra che ha sbagliato, che è andata fuori dal binario proprio della sinistra, allora si afferma che può esistere una sinistra positiva e una negativa, una giusta e una sbagliata, con il che siamo da capo. Non ci serve ragionare in termini di sinistra e di destra, perché non si approda a nulla.
    I programmi dei partiti politici sono sempre, del resto, un miscuglio di posizioni considerate di sinistra e di altre considerate di destra. Non è difficile pescare brani di scritti di Mussolini e di Hitler che parrebbero scritti da Lenin o Stalin, e viceversa.
    Solo discutendo di programmi, e non in generale, ma punto per punto, si può davvero discriminare fra una politica e l'altra e dire "sì, sono d'accordo" oppure "no, non sono d'accordo".
    Ovviamente, dietro alle scelte che gli individui operano volta per volta, c'è anche una visione più complessiva della vita (della società, dell'economia, della politica ecc.), sia riferita a una filosofia, a una ideologia, a una forma mentale, a una inclinazione antropologica o ad altro. Ma la visione generale (chiara o confusa che sia secondo scienza e coscienza ed esperienza) non cancella mai lo specifico delle scelte operate di volta in volta, né queste cancellano l'influenza della visione generale che ci sta dietro, in posizione dialettica e non deterministica.
    L'uomo, nel suo comportamento politico inteso in senso lato, è sempre un uomo diviso, in perpetuo conflitto di interesse con se stesso, fra la sua parte che interpreta il cittadino preoccupato degli interessi generali e l'altra sua parte che rappresenta i propri interessi personali, particolari. Il peso delle due parti può variare da individuo a individuo, ma è sempre presente. L'analisi psicologica dei comportamenti politici è estremamente difficile e incerta.
    Gli unici appigli che danno materia di analisi più oggettiva sono: 1) i programmi; 2) la coerenza dei comportamenti / delle condotte politiche, rispetto ai programmi; 3) il risultato prevedibile delle azioni e dei provvedimenti messi in atto sulla base dei punti 1 e 2.
    Da questo punto di vista le divisioni nella sinistra (ma anche nel centro e nella destra, che non hanno mai dimostrato una maggore coesione e una minore tendenza alla conflittualità interna) si spiegano con le caratteristiche proprie – e da sempre – dell'attività politica. I fattori principali sono: 1) le circostanze storiche, che in alcuni casi spingono all'unità, in altri alla divisione; i periodi di crisi e di cambiamento, normalmente, favoriscono le divisioni, salvo che forti fattori di emergenza non si concentrino in pochissimi punti programmatici capaci di unire. 2) La qualità dei leader. I leader forti e capaci uniscono, i deboli e incapaci dividono. Tra parentesi va aggiunto che non sempre i forti e capaci hanno ragione, tuttavia la prassi politica funziona così, non sulla base delle ragioni possibili. 3) La qualità delle organizzazioni. Quelle strumentali dividono, quelle basate sullo spirito di comunità uniscono. 4) La qualità dei programmi. Quelli con più contraddizioni interne e più dispersione di obiettivi e di astrattezze in riferimento agli interessi dei cittadini (tutti, o dei soli elettori di riferimento), dividono; quelli più concentrati su punti fondamentali e di forte incontro con l'elettorato, uniscono. 5) Infine, ultimo di un elenco non certo esaustivo, vi è il fattore "psicologico", miscuglio di elementi di difficile identificazione e valutazione, che incide molto sulla "simpatia" che un leader, un partito o un programma incontrano fra gli elettori. Da almeno un decennio, ad esempio, la "novità" è stata apprezzata più della "fedeltà"; i cittadini (ed elettori) sono diventati molto più "mobili". La cosiddetta anti-politica (cioè la nuova politica contro la vecchia) ha premiato di più della politica tradizionale. Fra i fattori psicologici vi è anche, importante, la percezione che i cittadini hanno relativamente all'onestà dei leader e candidati politici. Onestà e capacità (competenza) sembrano oggi diventati, agli occhi dei cittadini, valori più importanti della "fedeltà alla linea", tipica dei partiti tradizionali.
    Le divisioni interne alla cosiddetta sinistra, oggi, più che distinzioni fondamentali di linee programmatiche diverse, appaiono come diverse sfumature dello stesso colore, grigio, che il pubblico non riesce a distinguere, né vuole, né gli interessa farlo. Inoltre se la sinistra renziana ha un leader indebolito, mezzo azzoppato, la sinistra anti-renziana non ha nessun leader credibile oltre la soglia del 5% di forza elettorale. Non sono tali Bersani né D'Alema, Emiliano o Speranza o Pisapia o altri, figure scialbe, alcune delle quali hanno avuto il loro momento e si sono comportati male, al di sotto dei compiti affrontati e delle aspettative; altre non hanno mai avuto e mai dimostrato le capacità per svolgere un ruolo nazionale, oltre gli steccati degli apparati di partito o dei giochi a livello locale (comunale, regionale). 
    La sacrosanta sconfitta del referendum costituzionale voluto da Renzi ha, paradossalmente ma non troppo, messo in crisi sia la sinistra del SI sia quella del NO. Infatti sia le ragioni del SI sia quelle del NO erano in gran parte strumentali; e continuavano una strumentalità della politica che dura da troppo tempo e che da troppo tempo evita di affrontare le domande di fondo, che non sono "cosa vuol dire essere di sinistra? cosa è la sinistra?", domande vuote e retoriche. Ma che sono, per riprendere (pur senza condividerle a pieno, ma solo per comodità) le categorie valoriali menzionate da Cominelli: "che cosa è la libertà, per noi? che cosa è la giustizia? che cosa è la solidarietà? che cosa è l'uguaglianza?". Non in termini di bla bla bla ideologico, ma in termini di programmi, progetti di legge, copertura dei costi, benefici, sacrifici, sudore e sangue che ne deriverebbero e per chi e come.
    E' su questo terreno che, a torto o a ragione, il M5S ha guadagnato consensi a danno della sinistra. Ed è qui che la cosiddetta sinistra ha avuto, ha ed avrà il suo vero campo di battaglia. Se non è credibile su questo terreno, non potrà che dividersi, litigare, perdere, e comunque continuare nel suo andazzo solito.  
       

    • Giovanni Cominelli scrive:

      L’articolo fa una schematica analisi storica (a proposito: la sinistra nasce nel corso della Rivoluzione francese, allorchè i rivoluzionari radicali si trovarono a sedere a sinistra del Presidente dell’Assemblea, mentre i conservatori si erano raggruppati alla destra del Presidente, pare per sfuggire al rumore e alle urla e indecenze che i rivoluzionari urlavano dai loro banchi, dove tutti, all’inizio, erano seduti con tutti) e propone che la sinistra di oggi e del prevedibile futuro sia la sinistra socialista/cattolico liberale di cittadinanza. I valori che la guidano: la triade della Rivoluzione francese.
      Da quando Cromwell riunì nella chiesetta di Putney, nei sobborghi di Londra, i suoi quadri politico-militari in una "quattro giorni” del 1647, che elaborò il concetto moderno di democrazia liberal-borghese, sono venute al mondo tre sinistre:
      a) la sinistra liberal-borghese (gli Whigs, i Girondini, i Giacobini…): quella del Terzo Stato; dura fino al 1848.
      b) la sinistra di classe (comunisti, socialisti…): quella del Quarto Stato (dal 1848 al 1989)
      c) la sinistra di cittadinanza (Blair, Schroeder, Renzi, Macron…): quella del dopo-‘89
      L’articolo opta, ovviamente, per quest’ultima.

      • Luciano Aguzzi scrive:

        Caro Cominelli,
        1) La tua è una interpretazione della storia della sinistra nota e che dimostra, come affermo, che fin dal suo sorgere è solo un’etichetta. Ti sembra che i Giacobini, che hanno teorizzato e prodotto il terrorismo e poi il bonapartismo, appartengano a una sinistra «liberal-borghese»? Non ti sembra invece che abbiano usato i valori «libertà, uguaglianza, fraternità» solo come slogan propagandistico? E quando mai, in pratica, avrebbero tentato di realizzarli? I giacobini sono gli antenati di una concezione dello stato forte, etico e quindi discriminante fra i valori, autoritariamente “didattico” e quindi contrario alla libertà dei singoli, in ciò precursori del totalitarismo, sia quello nero fascista e nazista sia quello rosso leninista e stalinista.
        2) Quella che tu chiami “sinistra di classe” si è storicamente articolata in molte correnti anche in aspra guerra fra loro, con massacri reciproci in diversi tornanti delle vicende politiche. Serve a qualcosa, dunque, definirla in blocco “sinistra”? Quando poi le articolazioni programmatiche sono le più diverse e in contrasto fra loro? Che hanno a che fare i socialisti rivoluzionari con i leninisti che li hanno massacrati o gli anarchici di Spagna e i socialisti riformisti con i comunisti loro massacratori; o i socialdemocratici considerati dai comunisti “rivoluzionari” alla stregua dei fascisti e comunque sempre servi del capitalismo e dell’imperialismo?
        3) Quella che tu chiami “sinistra di cittadinanza” ci mostra di nuovo un coacervo di posizioni aspramente diverse, e soprattutto, per molti aspetti, ostili e addirittura il contrario delle precedenti definizioni di sinistra. Dunque, di nuovo, a che serve parlare di sinistra?

        Inoltre, nel tuo schema è assente un’altra sinistra: quella libertaria, quella che non vuole conquistare lo stato per realizzare i propri programmi, ma abolire lo stato perché cessi di impedire che gli uomini liberi si organizzino in modo autonomo e realizzino da soli, senza lo stato, il proprio programma.
        È la sinistra che, da diverse posizioni (comunitariste, individualiste), ha come nemico principale lo Stato in cui vede la massima organizzazione criminale di tutti i tempi. Le altre tre sinistre della tua scaletta sono invece tutte e tre stataliste e si rassomigliano come bande di ladri, pur essendo fra loro in lotta per la conquista e la spartizione del bottino.
        Storicamente, la “sinistra”, intesa in senso stretto come movimento socialista/comunista, è morta quando anziché rafforzare gli elementi di alternativa allo stato, al di fuori dello stato, ha fatto la scelta di lottare per conquistare lo stato. Ma questo tipo di lotta e l’organizzazione dello stato hanno una logica interna, una “ragion di Stato”, più forte delle ideologie della sinistra e della destra, e tutti quelli che entrano nello stato per cambiarlo, finiscono per cambiare se stessi, incidendo poco sulla realtà dello stato (e anche semplicemente della burocrazia come potere organizzato e corporativo).

        La sinistra, nello stato e con lo stato, non realizzerà mai i valori della libertà, della giustizia, della solidarietà ecc., ma, nel caso migliore, si limiterà a rendere più sopportabile il peso dello stato, con una minore rapina, ingiustizia e autoritarismo fra le forme che si dicono democratiche (liberal-democratiche ed etico-democratiche) e le forme autoritarie (democrazia autoritaria, autoritarismo di tipo tradizionale, fino al totalitarismo). Insomma, il ladro democratico, qualche volta, ruba di meno. Se la differenza è solo questa – e certamente nella vita quotidiana degli individui è una differenza che incide molto -, il luogo ideale in cui si incrociano e realizzano i valori non sta qui, e questa “sinistra” fa parte della stessa famiglia politica della “destra”.

        Io mi chiedo, come se lo chiedevano molti socialisti e comunisti cosiddetti utopisti prima che il marxismo, ancora vivo Marx, optasse per diventare una macchina non mirata a realizzare il comunismo, ma a conquistare il potere, rimandando la costruzione del comunismo a un ipotetico e sempre più lontano e impreciso momento futuro; e come ad ogni svolta “rivoluzionaria” se lo chiedono i socialisti e comunisti più autonomi, prima di venire schiacciati da quelli istituzionalizzati, mi chiedo, come si chiedono anche i teorici dell’organizzazione in qualunque campo, perché chi si definisce comunista non comincia subito a costruire il comunismo? Perché non ne dimostra la superiorità rispetto all’organizzazione capitalistica promuovendo così l’estensione del modello migliore? La risposta maliziosa è che i comunisti non sono convinti del comunismo che predicano e della sua superiorità rispetto al deprecato capitalismo, è che non sono coerenti, è che in realtà non gli interessa il comunismo ma i vantaggi che, in seno ad una società non comunista, possono ottenere lottando per il comunismo (fossero anche solo vantaggi psicologici, di gratificazione). La risposta non maliziosa è che, quando non sono opportunisti, sono degli ingenui e sprovveduti sognatori.
        In una società relativamente libera come quelle a costituzione democratica costruire il comunismo è possibile, ed è possibile dirigere la lotta per la rimozione di quegli ostacoli legislativi che complicano le cose. Nomaldelfia, ad esempio, è una società comunista di circa mille persone, famiglie intere. Certo, si ispira ad un comunismo evangelico cristiano cattolico, ma è comunista. Perché mille o più comunisti che si ispirano a una diversa filosofia comunista non si organizzano per vivere da comunisti? Se lo fanno, e se la loro comunità dimostrerà, in concreto, di poter dare di più, soprattutto in termini di felicità, di quel che danno le società borghesi, sono convinto che verrebbero imitate e che il comunismo comunitario – che in sé non è affatto un’utopia come quello marxista non è affatto una scienza, potrebbe diventare il modello vincente.
        Un comunismo pacifico, costruito su base volontaria e non imposto con la violenza dello stato: ecco il solo comunismo accettabile e auspicabile. Quello imposto con la violenza dello stato non è comunismo, ma violenza, e il tratto della violenza, della ferocia e dell’abuso di potere, caratterizzano tutte le pretese società comuniste nate da una rivoluzione violenta, da quella Russa a quella Cubana. Ma in queste società non c’è un briciolo di comunismo e le parole della rivoluzione francese continuano a essere agitate solo come slogan di propaganda, nell’ambito di una lingua di legno dove libertà significa oppressione, giustizia significa abuso di potere e annientamento dell’uomo, e fraternità significa che lo stato si arroga il diritto di gestire a suo comodo tutte le risorse del Paese, dando e togliendo arbitrariamente.
        La “sinistra” per la quale tu opti è certamente meno dannosa del totalitarismo leninista stalinista castrista. Ma perché chiamarla sinistra e non semplicemente democrazia sociale come si potrebbe più correttamente e chiaramente definire? Si tratta, infatti, di una forma di democrazia etica, il cui giacobinismo è stemperato dal liberalismo e si incrocia, per sensibilità e programmi (in teoria!), con alcune istanze storiche del socialismo limitatamente ai temi del soccorso e della difesa dei ceti più deboli.

        • Claudio Cereda scrive:

          Sono d’accordo con le tue considerazioni finali (ma anche con l’analisi della prima parte tesa a dimostrare che al di là delle distinzioni ideologiche, le pratiche concrete hanno determinato molte sovrapposizioni). E’ questa la ragione per cui, quando scrivo di politica mi riferisco più genericamente a modernità, progressismo, …

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