’68 – La selezione meritocratica – di Vittorio Sforza

Le persone che 50 anni fa si sono impegnate nella costruzione del Movimento Studentesco di Scienze (poi divenuto di Città Studi) all'Università Statale di Milano e al Politecnico, si ritrovano sabato 26 maggio all'Istituto di Fisica di via Celoria, nell'aula A dove tutto ebbe inizio.

Ci siamo ritrovati per la prima volta 10 anni fa in occasione del 40° e allora lo facemmo in maniera più solenne e formale, al punto che ci fu addirittura una relazione introduttiva di Franco De Anna dedicata al tema delle passioni tristi e quelle generose. Magari nei prossimi giorni la si ripubblica.

Dopo quell'incontro abbiamo tentato di mettere in piedi uno strumento di comunicazione e per un  po', seppur in maniera disordinata, la cosa ha funzionato con la stesura di post, articoli e riflessioni. Poi dal 2010 tutto si è fermato ma quel materiale che, nelle mie intenzioni, avrebbe dovuto servire a stendere un libro di ricordi-riflessioni, è ancora disponibile e mi è venuta l'idea di metterlo su Pensieri in Libertà e sulla pagina Facebook creata per pubblicizzare l'evento del 26 maggio.

Sono materiali datati, hanno 10 anni, ma sono comunque documenti e possono servire ad arricchirci e a rinforzare elementi di comunanza ed identità che sono rimasti, nonostante le scelte diverse fatte da ciascuno di noi in ambito culturale, professionale e politico.

Voglio ricordare qui due amici e compagni che si spesero per l'incontro del 2008 e che non ci sono più Giorgio Calzamiglia, di Geologia e Guido Paracchini (Pepè) di Chimica. Nei prossimi giorni pubblicherò anche il loro punto di vista.

Questa volta faremo una cosa in tono minore, con minor tempo per la assemblea e più tempo per coccolarci, per capire cosa ci ha accumunato e per salutarci visto che è molto improbabile ritrovarsi da ottantenni.

Il primo intervento è di Vittorio Sforza (Lupo) di Chimica e riguarda una cosa che contraddistinse il Movimento Studentesco di Scienze nel momento in cui altrove si faceva lotta ideologica: la lotta a quella che ciamavamo la selezione meritocratica. Buona Lettura

Claudio Cereda


di Vittorio Sforza

Intervengo sul tema della lotta alla selezione meritocratica che, ai tempi, era il nostro cavallo di battaglia, perché è un tema che è stato chiesto esplicitamente da diversi di noi e perché nel bene e nel male è un problema per molti aspetti aperto.

Per noi la selezione meritocratica era quell’insieme di pratiche didattiche caratteristiche sia dell’insegnamento universitario, sia dell’insegnamento in genere, che aveva come obiettivo quello di selezionare gli studenti non sulla base del merito ma su quello della loro disponibilità ad accettarne le regole. Queste regole sostanzialmente ci apparivano per niente finalizzate alla verifica di quanto era stato appreso dagli studenti e delle loro effettive capacità quanto piuttosto alla verifica meccanica delle nozioni apprese e della accettazione scontata dei carichi e dei tempi di lavoro imposti.

Sostanzialmente ai nostri occhi si trattava di una pura e dura verifica burocratica che non si poneva mai il problema della validità e dell’efficacia dell’insegnamento svolto ne’ tanto meno si poneva il problema di evidenziarne il senso, l’importanza e le criticità. Alla fin fine il successo o meno agli esami ci appariva (ed era così in larga misura) indipendente dalla bontà del lavoro del docente, esso era sostanzialmente funzione solo del lavoro dello studente che era, per il docente, un soggetto sostanzialmente anonimo (altra cosa largamente vera almeno nei primi anni di università) che veniva giudicato in un esame formalmente oggettivo tutto giocato sui contenuti.

Quali fossero i contenuti e il come erano stati sviluppati non era in gioco, essi erano definiti a priori e comunque adeguati. Il fatto che agli esami ci fosse un numero elevato di bocciati non era un problema, non indicava una criticità. Era così e basta, l’esame valutava solo il lavoro dello studente, non aveva altra funzione.

La pratica didattica centrale nelle università (ma per molti aspetti non era diversa la situazione nelle scuole superiori), se non unica, era la lezione cattedratica, ovvero un contesto in cui gli studenti potevano solo ascoltare il docente che dalla cattedra faceva la sua lezione più o meno teatrale o più o meno divertente. Era impossibile fare domande o comunque interagire con il docente. Sostanzialmente lo studente doveva ascoltare e (soprattutto) prendere appunti.

Non era importante che capisse, questo diventava importante solo dopo, cioè quando lo studente studiava. Di fatto lo studente era una specie di autodidatta e infatti questa era la conclusione a cui arrivavamo nei nostri documenti sulla didattica universitaria. Non mi meraviglio quindi che per noi la selezione realizzata sulla base di tali pratiche apparisse ingiusta e che, visto che veniva chiamata selezione in base al merito, fossimo contro la selezione meritocratica. Più complesso invece è spiegarsi perché tale selezione fosse considerata da noi anche selezione di classe.

Ci portavano a tale conclusione le seguenti considerazioni:

  • Quel tipo di processo didattico non sollecitava assolutamente alcuno spirito critico, anzi abituava semplicemente ad eseguire senza farsi domande.
  • Quel tipo di processo didattico era estremamente penalizzante per gli studenti provenienti dagli strati sociali inferiori. Questi infatti non potevano contare su un contesto sociale-culturale di sostegno indiretto (potevano contare solo su se stessi) e, soprattutto, dipendendo da presalario e borse di studio, per riuscire dovevano necessariamente adeguarsi a quella pesantissima situazione, ovvero accettare di non interrogarsi mai su quello che stavano facendo diventando copie dei formatori, oppure essere selezionati

L’insieme di queste considerazioni unitamente alla consapevolezza che queste si accompagnavano ad una evidente e pesante selezione sociale ci portava a definire quella selezione meritocratica una selezione classista. Vista a posteriori è innegabile che questa analisi risente di notevoli elementi di forzatura perché, nella realtà delle cose, quel tipo di pratica didattica era molto spesso semplicemente il modo meno faticoso per il docente (e probabilmente anche l’unico noto) .

Come mi ha fatto notare il Prof. Ragusa, direttore del dipartimento di fisica in uno dei tanti incontri che abbiamo avuto per preparare il nostro incontro, si trattava di un metodo di insegnamento per il docente più che per gli studenti. Ciò non toglie tuttavia che, al di la della forzatura, quel tipo di pratica aveva un suo senso dal punto di vista della selezione di classe e degli assetti di potere universitari, ma questo non vuol dire che ogni selezione meritocratica è di per se classista. Da questo punto di vista sono d’accordo con Claudio Cereda quando dice che noi non eravamo contro il merito di per sè ma tuttavia una qualche ambiguità l’abbiamo avuta (e non solo perché in diversi casi sono spuntate richieste di voti di gruppo e simili).

Alla selezione meritocratica noi contrapponevamo quella che chiamavamo una preparazione tendenzialmente egualitaria e ovviamente per realizzare questo obiettivo avevamo articolato tutta una serie di proposte e di tattiche. Ancora oggi, ogni qual volta ci ripenso, rimango meravigliato dalla grande conoscenza che avevamo delle diverse situazioni didattiche e dalla creatività con cui indicavamo soluzioni alternative a quelle istituzionali. La più importante proposta o meglio obiettivo di lotta era disarticolare (e al limite eliminare) la lezione cattedratica che volevamo sostituire con quelli che chiamavamo gruppi di studio.

Nei gruppi di studio gli studenti e il docente dovevano interagire in modo da garantire che tutti, o la maggior parte degli studenti partecipanti, apprendessero gli argomenti affrontati; da qui preparazione tendenzialmente egualitaria. Ciò era possibile se erano assicurate le seguenti condizioni:

  • Il numero di studenti non doveva essere troppo elevato (max 25)
  • Gli studenti potevano far domande durante le lezioni (anzi dovevano fare domande!)
  • I ritmi con cui dovevano essere sviluppati gli argomenti dovevano tener conto delle capacità di apprendimento degli studenti (cioè non si va avanti se un argomento non è stato capito dalla maggior parte degli studenti)
  • All’esame si portava solo quanto effettivamente svolto e non quanto previsto dal programma (con la lezione cattedratica spesso si portava quanto previsto dal programma indipendentemente da quanto svolto durante le lezioni).

L’insieme delle condizioni sopra indicate permetteva al docente di poter conoscere il reale livello di preparazione e capacità degli studenti del suo corso e di questo si doveva tener conto in sede d’esame (il tenerne conto in alcuni casi, pochi è vero, è però scivolato nella richiesta del voto di gruppo).

Questo era per noi l’obiettivo fondamentale nella lotta contro al selezione meritocratica e per una preparazione tendenzialmente egualitaria. Non siamo mai riusciti a raggiungerlo. Abbiamo lottato, occupato, abbiamo ripetutamente interrotto lezioni, discusso etc. Non l’abbiamo mai spuntata in modo significativo.

Certo abbiamo ottenuto tante cose (i corsi serali per i lavoratori studenti in diversi corsi di laurea, la sessione continua d’esame, l’abolizione di alcuni assurdi catenacci, un maggior rispetto agli esami, anche in diversi casi i gruppi di studio, ma mai in sostituzione della lezione cattedratica (sempre i gruppi affiancavano la lezione cattedratica ovvero li si voleva considerare come esercitazioni) e comunque li avevamo ottenuti praticamente solo a fisica e qualcosa a chimica. Per il resto niente.

Eppure se uno riflette su quella nostra richiesta essa tutto sembra essere tranne che una proposta rivoluzionaria. E in effetti di per sè non lo era, era solo una proposta di innovazione riformatrice (e infatti per molti dei gruppi studenteschi dell’epoca noi eravamo una specie di riformisti) che però aveva il grave potenziale difetto di distruggere con la lezione cattedratica anche l’assetto di potere allora vigente in università.

Quindi, niente non se ne parlava nemmeno! Nel ’71, nonostante tre mesi di occupazione, hanno preferito mandarci la polizia ad occupare la facoltà piuttosto che cedere su questo terreno. Purtroppo noi non eravamo pienamente consapevoli della portata della nostra richiesta, ne’ eravamo consapevoli del nostro pesante isolamento e così siamo andati a sbattere la faccia contro una realtà che era molto ma molto più forte di noi.

Ma quella nostra parola d’ordine della preparazione tendenzialmente egualitaria conteneva anche una ambiguità che non casualmente si sposava perfettamente con le tendenze egualitariste del periodo. L’ambiguità è che volevamo che tutti gli studenti avessero le stesse opportunità di poter capire gli argomenti affrontati, ma non si prendeva in considerazione il fatto che non tutti avevano voglia di farlo o erano in grado di poterlo fare. In altri termini non si prendevano in considerazione le diversità individuali.

Quest’ambiguità la si poteva probabilmente sciogliere solo stando dentro ai gruppi di studio, intervenendo in essi, anche proponendo metodologie adatte. Noi questo non eravamo in grado di farlo (e nemmeno ci pensavamo a farlo perché era una metodologia troppo riformista) nè abbiamo avuto la possibilità di farlo. Perciò capitava che la preparazione tendenzialmente egualitaria venisse interpretata in modo molto estensivo. Da qui gli scivolamenti verso il voto di gruppo che però sono stati complessivamente marginali.

Non così però è stato per gli studenti delle scuole medie dove invece l’aspetto di rifiutare la valutazione dell’insegnante in quanto tale ha avuto un peso per niente marginale e profondamente negativo con strascichi che si sono propagati anche per molti anni successivi.

Avevamo ragione sulla meritocrazia? Secondo me si era una lotta giusta contro le eccessive disuguaglianze sociali e contro un criterio selettivo di merito profondamente sbagliato!

Avevamo torto? Si su alcune questioni siamo stati ambigui e comunque non siamo stati capaci di articolare proposte adeguate allo scopo, ovvero abbiamo assecondato una tendenza egualitarista eccessiva che andava al di la della giusta esigenza di ridurre le disuguaglianze sociali e, che perdeva di vista il fatto che gli individui sono diversi e questa diversità di cui si deve tener conto, pone un problema di merito da valutare.

 

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5 risposte a ’68 – La selezione meritocratica – di Vittorio Sforza

  1. Franco Bocci scrive:

    Ciao a tutti!
    anche se finora non mi sono fatto vivo, e se purtroppo non ho tempo di fare un intervento “come si deve”, volevo dirvi che ci sono, vi seguo e mi fa molto piacere leggere le cose che scrivete e vedere che in molti casi, nonostante l’isolamento dovuto alla mia “emigrazione” a Brescia, abbiamo seguito percorsi quasi paralleli, cosicché ci siamo lasciati che eravamo vicini e ci ritroviamo ancora vicini. E questo nonostante siano passati quarant’anni!
    Ciascuno di noi, credo, ha avuto i suoi successi, le sue soddisfazioni, e si è preso le sue mazzate sui denti. Eppure siamo ancora qui e abbiamo ancora molto in comune: non è straordinario?
    Mi ritrovo soprattutto negli interventi di Lupo e Pepé, per cui non ripeterò le cose che loro hanno già espresso molto meglio di quanto avrei saputo fare io. Aggiungerò solo qualche considerazione molto veloce, molto brutale, forse provocatoria, ma comunque fatta con buone intenzioni. Non aspettatevi un intervento sereno, equilibrato e oggettivo: calcherò la mano sulle cose che non vanno, sulle considerazioni autocritiche, perché sono quelle che mi rosicano dentro.
    Pensando al nostro ’68 mi sembra di poter dire che nel complesso è stata molto positiva la “pars destruens”: abbiamo fatto bene a smantellare la scuola (e non solo quella) presessantotto. Purtroppo però, riguardo alla “pars costruens”, quando si trattava di sostituire con qualcos’altro quello che avevamo distrutto, dobbiamo riconoscere che abbiamo (la parola è forte e fa male pronunciarla) sostanzialmente fallito.
    Parlerò soprattutto della scuola, perché è l’ambiente che conosco meglio (sono un insegnante) e anche perché probabilmente è quello in cui abbiamo fatto più danni. Il guaio è che i danni fatti alla scuola si riversano, sul medio periodo, su tutta la società!
    Lupo ha descritto molto bene la nostra lotta alla selezione e ne ha spiegato le ragioni. Il punto è che secondo me noi avevamo colto bene l’intreccio stretto tra l’aspetto meritocratico e quello di classe della selezione. Ma invece di puntare ad allentare il più possibile questo legame, cioè invece di adoperarci perché la selezione fosse il più possibile meritocratica e il meno possibile classista, abbiamo scelto di buttare via il bambino con l’acqua sporca, e abbiamo lottato contro la selezione tout court.
    Le conseguenze di questa scelta sono sotto gli occhi di tutti. Oggi in Italia il merito è considerato quasi una colpa. Riconoscerlo, valorizzarlo, un delitto. Chi come me è nella scuola ricorderà la sollevazione popolare (soprattutto, duole dirlo, a sinistra) che ci fu non molti anni fa quando Berlinguer tentò timidamente di introdurre qualche elemento di merito tra gli insegnanti.
    Sollevazione che in pochi mesi travolse la proposta e con essa lo stesso Berlinguer, che fu costretto alle dimissioni. Oggi la Gelmini, nella sua ingenuità, ne riparla, ma non è certo difficile prevedere un’uguale impallinazione se per caso tenterà di passare dalle parole ai fatti (ma vedrete che i suoi colleghi più esperti e navigati la dissuaderanno).
    Con i nostri studenti abbiamo “abolito” la selezione semplicemente privando di significato i voti che diamo. Chi è nella scuola sa bene che gli insegnanti fancazzisti e ignoranti sono quelli che sparano i voti più alti. Ai nostri tempi le frange più cretine del movimento lottavano per il “sei politico”. Molti anni dopo, il “sei politico” è stato superato nei fatti: molti miei colleghi non danno voti al di sotto del sette! Gli insegnanti più seri invece misurano con più attenzione i loro voti. Il risultato è che c’è spesso una anticorrelazione tra voti e preparazione!
    Ma l’abolizione della selezione è soltanto illusoria. Buttata fuori dalla scuola, si è appollaiata all’uscita e lì attende (me la immagino con un ghigno sardonico) gli studenti: i quali, se vogliono tentare di collocarsi decentemente nel mondo del lavoro, devono fare un sacco di stage, master e quant’altro. Che costano un occhio della testa: la selezione ha recuperato in pieno il suo carattere classista.
    Eppure ricordo che all’inizio, nel movimento, c’era la parola d’ordine della “lotta alla dequalificazione” della scuola. Perché l’abbiamo lasciata cadere?
    Mi occupo di olimpiadi della fisica. Lo faccio con molto piacere, perché secondo me è uno dei pochi canali per valorizzare i meriti, anche se si tratta di una valorizzazione solo platonica. Negli ultimi tre anni ho avuto modo di accompagnare due volte la squadra italiana alle olimpiadi internazionali: una volta a Singapore e una volta ad Hanoi. (Sì, proprio ad Hanoi, che per la nostra generazione significa qualcosa… ma questa è un’altra storia.)
    Bé, Singapore ed Hanoi sono due realtà molto diverse, ma una cosa in comune, per quel poco che ho potuto vedere, ce l’hanno: si respira un’aria diversa, si coglie la voglia di migliorarsi, di competere verso l’alto, di dare il meglio di sé. Che tristezza poi tornare in Italia e respirare quest’aria stagnante, di palude. Questa ricerca professionale del massimo risultato col minimo sforzo. Questa gara al ribasso,a dare il meno possibile! I miei studenti si lamentano: “Profe, ma nelle altre sezioni fanno meno di noi”!
    Negli Stati uniti dicono: “America is not the land of guarantees, is the land of opportunities”. Il fatto che in Italia ci siano garanzie non mi dispiace affatto e lo considero una conquista di civiltà.Ma il fatto che non ci siano opportunità di dimostrare il proprio valore (penso soprattutto ai giovani – non parlo certo per me! – che vorrebbero fare ricerca e sono costretti ad andarsene all’estero) bè, mi fa rosicare il fegato e venire il sangue marcio.
    Avremmo bisogno di uno scatto di orgoglio, di un cambiamento profondo della nostra mentalità, in tutti i campi. Ma non credo che sia possibile senza un input forte, un segnale drastico, rivoluzionario. Per questo, da molto tempo, mi sono convinto che l’unica proposta davvero seria che potremmo fare (una proposta che quarant’anni fa ci avrebbe fatto inorridire!) sarebbe quella di abolire il valore legale dei titoli di studio. Finché la scuola rilascerà dei pezzi di carta con un valore legale, la maggior parte degli studenti punterà ad ottenere quel pezzo col minimo
    sforzo, e “giustamente” si lamenterà degli insegnanti esigenti che tentano di farli sgobbare sui libri. Ma se la selezione viene spostata all’ingresso della fase successiva (nel caso della scuola superiore, all’ingresso dell’università) forse sarà più facile capire che quello su cui vale davvero la pena di investire, per cui vale la pena di sgobbare, è la propria formazione, la propria crescita culturale. Naturalmente, non mi illudo certo che questa proposta venga accolta,ma questo non mi sposta di un millimetro nella mia convinzione sulla sua giustezza.
    Beh, penso che per questa volta possa bastare. Ripeto che questo non è assolutamente un bilancio della nostra esperienza, che considero straordinaria. La nostra passione, la nostra generosità, la nostra buona fede di quegli anni sono, per quanto mi riguarda, fuori discussione. Purtroppo però le conseguenze delle nostre idee sono state molto diverse da quello che pensavamo. Un abbraccio a tutti
    Franco Bocci gennaio 2009
    P.S. Un altro bel tema di discussione, secondo me, sarebbe il nostro rapporto con la “politica”, nel senso dei politici di professione. Siamo nati contestando quella politica, in particolare la sinistra, che secondo noi si era imborghesita e aveva tradito gli ideali su cui si fondava. Poi abbiamo fondato noi dei partitini (sulla valutazione sostanzialmente negativa che ne dà Pepé sono molto d’accordo). Poi, più o meno, siamo rifluiti nelle braccia dei partiti di sinistra. Io non mi sono mai iscritto al PCI o ai partiti che ne sono nati, ma più o meno ero in quell’area.
    Ma in questi ultimi anni me ne sto di nuovo allontanando, profondamente deluso. Non so se avete letto il libro di Rizzo e Stella (La casta): secondo me è profondamente illuminante di quanto sia diffuso quello che ciascuno di noi vede nel suo piccolo: è tutto un mangia‐mangia, un arraffar di poltrone e di privilegi; la classe politica italiana fa schifo, non c’è più quasi differenza tra destra e sinistra, anzi spesso capita che la destra sia persino meno peggio della sinistra.
    Insomma, mi sembra che da questo punto di vista il cerchio si sia chiuso e si sia tornati alla situazione pre‐sessantotto! Anzi, peggio: noi abbiamo lottato con tutte le nostre forze contro la DC, ma in confronto ai politici di adesso, i democristiani degli anni cinquanta e sessanta erano dei galantuomini! Che pena!
     

  2. Guido Paracchini (Pepè) scrive:

    Caro Bruno,  penso che sia giusto oggi battere con forza sul tasto del merito in tutti i campi in un paese come il nostro, dove questo valore è sempre stato piegato agli interessi di casta ed perché no di classe, dove chi ha posizioni di privilegio e di potere continua a conservarli ed perpetuarli, con la conseguenza che le classi dirigenti non si rinnovano e si accentua il declino del bel paese.
    Purtroppo anche la sinistra non è stata indenne da questa caratteristica di “italianità”, che sembra ineliminabile.
    Temo però, che gli esempi ed i personaggi che citi non  siano quelli giusti.
    Prendiamo Brunetta, l’ultimo epigone della lotta ai lazzaroni della pubblica amministrazione, che vorrebbe, con l’obbligo delle visite fiscali a tutti e sempre, eliminare gli assenteisti e i falsi malati. In realtà la norma c’è da sempre, a discrezione per i primi due giorni e obbligatoria al terzo giorno di assenza, io l’ho applicata ovviamente a discrezione ( mi sembrava offensivo mandarla al mio vice preside se era malato un giorno e a quelli che si impegnano e ci sono sempre), ma quando arrivava ai falsi malati ( o presunti) il tutto si risolveva con una conferma della prognosi del medico di famiglia o l’invito a presentarsi alla ASL se assenti da casa.
    Addirittura un docente si ammalava ed il suo medico compilava la prognosi anche tre giorni dopo, con la dicitura il paziente dichiarava di essere malato e per le ASL andava bene così. Addirittura il responsabile della ASL da me contattato mi invitava, qualche anno fa,  in via amichevole a lasciar perdere, perché volevo segnalare la cosa alla autorità giudiziaria.
    Sempre qualche anno fa, quando ancora lavoravo.., riguardo  ad un nostro conoscente degli anni generosi, finto insegnante e vero nulla facente da sempre, da me più volte sanzionato, il provveditorato agli studi ha “dimenticato” di portare avanti la iniziativa sanzionatoria da me richiesta e motivata, per cui tutto il mio lavoro è andato a farsi fottere. ( conservo a questo proposito una bella lettera del provveditorato, che un giorno incornicerò).
    Insomma il nostro bel paese è fatto così! Cosa voglio dire, che siccome gli italiani sono fatti così ( almeno una buona maggioranza)  non se ne fa nulla? No ma che occorrerebbe prendere decisioni precise, per esempio dare potere sanzionatorio forte a che dirige gli uffici, e punire anche i dirigenti che non lo fanno. Insomma introdurre il principio di responsabilità per tutti, anche con qualche rischio per chi potrebbe abusare del proprio potere, altro che visite fiscali obbligatorie!
    Il nostro (Brunetta) è un buon demagogo che getta fumo negli occhi, ( vedi le notizie riportate da quotidiani di qualche giorno fa alla festa sulla neve del PDL) e si permette di insultare tutti i docenti con la famosa frase del meccanico della Ferrari che va orgoglioso del proprio lavoro a differenza dei professori, che si vergognerebbero di dire ai propri figli che professione fanno. Comunque vedremo, il tempo è galantuomo.
    Anche la Gelmini, mi sembra un esempio poco appropriato, nel senso che l’unica cosa chiara, oltre i tagli che vedremo come saranno effettuati, ha cancellato il modulo didattico della scuola a tempo pieno, quella della compresenza di 4 ore la settimana, ma che implicava un lavoro collegiale nelle classi, ora si tornerà, vedremo se vero, al mestro unico che si farà i cazzi suoi come da sempre fanno nella scuole superiori quei docenti di cui parlavamo prima.
    Riguardo ai voti ed al voto di condotta sono d’accordo, anche se la questione ha più un valore simbolico, che reale ( in trentacinque anni di scuola non ho mai visto uno studente bocciato per la condotta), e scrivere insufficiente non può voler dire un buon risultato. Anche su questo tema vale il discorso della forma, che ha il suo valore, e qui la sinistra, che non abolì il voto di condotta ma lo rese inifluente sull’esito scolastico, ha compiuto una emerita cazzata.
    Insomma c’è bisogno premiare il merito, di far funzionare la cosa pubblica, di realizzare quello che solitamente ho visto fare  da molti, non tutti, docenti e presidi solitamente di sinistra, non credo che la destra si sia distinta su questi temi ed abbia la patente o l’intenzione di modificare veramente l’andazzo. Anche qui vedremo.
    Insomma caro Bruno, stiamo attenti a non prendere lucciole per lanterne, anche se con ciò non voglio assolutamente assolvere la sinistra, anche se qualcuno in passato  ha tentato di fare meglio ( vedi Il Berlinguer ministro, che ha il demerito di aver eliminato l’esito del voto di condotta, ma voleva almeno introdurre il merito tra i docenti, ma per questa seconda cosa è stato impallinato dai sindacati e dalla categoria dei docenti).
    Il caso Alitalia, anche se sembrerebbe fuori argomento, è li a testimoniare l’uso pubblico delle risorse di questa destra, ma forse gli italiani sono contenti e distratti. Spero che non lo sia anche, tu, forse sto esagerando, ma un pochino volevo farti incazzare.     Ciao, un abbraccio
    Guido Paracchini (Pepè) gennaio 2009
    NB. La questione della religione civile, vedi l’articolo di Mancuso sulla repubblica di martedì scorso, mi sembra un buon argomento per riflettere sulla questione del merito  e del rapporto pubblico privato. 

  3. Bruno Petrucci scrive:

    Selezione di merito = selezione sociale” Questo era il nostro slogan. Per me era in continuità con la mia lotta individuale ed isolata iniziata al liceo e poi al politecnico di Napoli, contro metodi d’insegnamento autoritari e nozionistici. L’unico esame in cui abbia mai preso un 30 fu il mio primo esame a Napoli: Analitica 1. “Mi descriva che figure d’interferenza si ottengono tra un paraboloide di rotazione ed un cilindro di asse ….
    Mi sembrava un sogno, riuscii a far dimenticare a tutti gli studenti presenti che quello era un esame, me ne dimenticai anch’io. Uno spazio nero con solidi di rotazione di un tenue azzurro entrarono nell’aula e le loro intersezioni tratteggiate e luminose danzavano nell’aria davanti agli occhi di tutti i presenti.
    L’unico 30 …. L’unico esame non nozionistico e mnemonico. Presto seguito da una sfilza di 18, 22, 23, un 25 ! La convinzione di non essere molto intelligente, rafforzata negli anni di geologia dalla selezione mirata. La presa per il culo della Rossi, di paleontologia, che mi fa un esame non nozionistico e mi dà un 27 solo per umiliare Pietro, per metterci l’uno contro l’altro.
    Già al liceo e durante il primo semestre a Napoli avevo cercato di “fare qualcosa” per arginare lo strapotere dei professori, anche di quelli bravi (a proposito non sono d’accordo con Claudio Cereda, io ho ottimi ricordi del mio prof d’Italiano, un prete cinquantenne e tanti altri di cui non ricordo il colore politico, ma che sono sicuro fossero di più colori). Battaglia da eroe alla John Wayne, nessuna paura degli indiani. Perdente, ovviamente.
    Non riesco a distinguere l’aspetto della lotta alla selezione da quello della lotta antiautoritaria. Per noi a Geologia erano troppo intrecciate. Perciò devo astrarre: da Geologia a Scienze a tutto il Movimento.
    Fino a Scienze per me va tutto bene: eravamo dei riformisti e forse i più concreti di tutto il movimento. Non a caso non mi ricordavo dei gruppi di studio, da noi mai esistiti.
    Però era una bella scelta: volevamo “liceizzare” l’università. Per forza dovevamo perdere, avrebbero dovuto almeno quintuplicare il numero di docenti/assistenti, però giusta e sicuramente non gradita per lo sforzo che veniva richiesto (non solo economico).
    Credo che il grande equivoco di tutto il movimento del ’68 sia stato il pensare che solo la selezione di merito fosse classista. Io credo che qualunque selezione sia classista. Se tu applichi criteri di uguaglianza ad una società di non uguali, quelli che sono in un contesto culturale più basso partono sempre svantaggiati.
    Così oggi che il numero di studenti universitari è grandemente cresciuto (qualcuno è capace di trovare dati?), la selezione di classe si sposta ai master, alla frequenza di università inglesi o americane, alle specializzazioni. E ancora una volta è selezione di classe. Che si fa? Si rovescia il mondo (però brutti risultati in URSS) oppure si cerca almeno di fare sì che quelli con maggiori strumenti possano andare avanti anche se a costo di maggiori sacrifici. Selezione di merito, appunto.
    Il contrario “avanti tutti alla velocità dei meno capaci” sposterebbe solo la selezione, ancora una volta al di fuori. Le tendenze “suicide” degli architetti dell’epoca (esami di gruppo, voto di gruppo) lo hanno dimostrato.
    Nel frattempo, mentre discutiamo di cosa è giusto e cosa è sbagliato, la società ha bisogno di tecnici di valore, ha bisogno che i migliori vadano al top della ricerca, dell’amministrazione pubblica, delle imprese private. E invece ci troviamo i baroni a perpetuare il loro potere, l’amministrazione pubblica serbatoio di consenso per i politici, le imprese private …… lasciamo uno spazio vuoto, per il momento, né di qui, né di là. E tutt’attorno, come in una nuvola nera, una società che pare premiare i più mafiosi (vedi Mastella) e accettare la logica del va bene, dopotutto che male c’è se uno si arrangia da solo (con le raccomandazioni di altri, ovviamente).
    I migliori se ne vanno, dappertutto pare, purché all’estero, dove si riesce a trovare situazioni più meritocratiche. Restano i “minori” e quelli che non sono interessati al potere e accettano “il potere baronale” e uno stipendio da terzo mondo, un’insicurezza cronica per tutta la vita lavorativa. Chi può emergere? Gli assatanati di potere che riescono a piegarsi alla logica baronale e che, come gli “oggetti di attenzione dei pedofili”, diventeranno a loro volta baroni (o pedofili).
    Credo che siamo d’accordo tutti su questo, credo che nessuno voglia il perpetuarsi di una simile condizione. E allora, senza arrivare agli eccessi di competizione americani, facciamo nostra la bandiera della selezione meritocratica.
    Semplicemente diciamo: noi come scienze non abbiamo mai fatto danni, ma ci siamo sbagliati nel quadro di riferimento perché eravamo mossi da sentimenti egualitaristi, da una passione generosa, che non abbiamo saputo supportare con strumenti d’analisi adeguati.
    Che si faccia selezione meritocratica ovunque, dalla scuola media in su, fino all’università, alla ricerca, all’assunzione e alla promozione nell’apparato dello stato, dei partiti, dell’intera società. Diamo a chi parte svantaggiato gli strumenti per migliorarsi, per continuare a salire nella scala che porta dalla scuola al mondo del lavoro e all’interno di questo.
    Sosteniamo chiunque si batta per questo: Brunetta ci va bene o no? In che direzione sta andando, in questa o in direzione opposta? Il sindacato, per decenni, in che direzione è andato?
    A me Brunetta va bene, sta rafforzando le condizioni in cui si possa avanzare per merito. Non sta risolvendo il problema della PA? E’ insufficiente? Sì, è insufficiente, ma sta operando nella direzione in cui anche noi vogliamo andare.
    Per favore non nascondiamoci dietro il solito dito. Cerco d’indagare le resistenze che sento dentro di me: va contro i lavoratori, crea condizioni meno giuste che pagheranno anche i lavoratori seri e meritevoli. Non va contro i lavoratori, non sta diffondendo ingiustizie e se il prezzo da pagare per l’emerginazione dei “fannulloni” è una piccola restrizione nel diritto di tutti gli statali a godere di un incentivo (premio di presenza) in caso di malattia, va bene, va accettato.
    La riforma Gelmini, elementari a parte, va nella direzione della meritocrazia o no? Se va da quella parte, allora sosteniamola. Piantiamola di dire che è insufficiente. Ho fatto solo due esempi, che mi servivano per dire questo. Noi, dopo l’università, nella piccola rivoluzione che ci siamo portati dietro, quella di tutti i giorni, abbiamo lottato per questo a viso aperto o ci sentivamo prendere dai mal di pancia ogni volta che eravamo di fronte a una scelta meritocrazia-egualitarismo?
    Beh, ve lo dico io e, badate, vedo ancora oggi la fatica che faccio io ogni volta che questa scelta si pone, non sto dicendo voi nella scuola …. Mentre io nella professione ….. No, vi faccio solo due esempi.
    Qualche anno fa, lavorando con quattro operai nel sud, per un mesetto, gli avevo promesso che avrei dato alla fine un premio “di produzione” a quelli che avessero lavorato con più dedizione. Risultato, due fighi, uno così così e un piantagrane.
    Alla fine mi sono scusato con loro e gli ho detto “non ce la faccio” e ho pagato un premio uguale a tutti. Io non scherzo quando dico “mi sento in colpa ogni volta che devo utilizzare un comportamento differenziato rispetto a chi vale e a chi fa un cazzo”.
    Secondo esempio: in Libano il capoprogetto (un bravo ragazzo che vota FI) ha scoperto un file nel computer del logista (Ahmed, Libanese, molto simpatico) in cui c’erano tre colonne: voci di spesa, prezzo A e prezzo B, con B>A. In fondo c’erano i totali e una suddivisione delle differenze tra i totali B ed A: Ahmded e Abdallah. In altri termini maggioravano le fatture e spartivano il surplus. Da licenziamento immediato. Eppure non vi dico la fatica che abbiamo fatto in tre, prima di decidere che dovevano essere licenziati. E qui forse siamo ancora più a monte della meritocrazia.
    Questa è la nostra eredità egualitaria del 68, che abbiamo ancora dentro e morde ogni volta che la si mette in discussione. Ovviamente poi, a monte del nostro egualitarismo c’è la matrice cattolica e quella credo che non la schioderemo mai da dentro. Ma questa è un’altra storia.
    La battaglia è prima di tutto ideologica e Brunetta ha ragione: punire i fancazzisti è il primo passo che si deve fare nell’amministrazione pubblica per poi premiare i meritevoli. E’ difficile, certo trovare dei criteri “oggettivi”, come dicevano sia Giorgio sia Lupo, non esiste l’oggettività, ma non per questo bisogna rinunciare se no continueremo a lamentarci di tutto un mondo italiano, di cui oramai ci vergognamo tutti (c’è un mio caro amico a Nairobi che vuole rinunciare alla cittadinanza Italiana perché ha vergogna) che sembra fossilizzato nel passato, incapace di muoversi in avanti. Cazzo negli altri paesi un politico sbaglia e se ne va. Qua non se ne va mai nessuno. Da questo punto di vista, onore a D’Alema quando si dimise da Presidente del Consiglio.
    Guido, dici che oggi la selezione è pesantissima sia nelle scuole che all’università ed io credo che diventi poi selezione di classe, certo. Però non dimenticare che all’università c’è anche un discorso di chi valuta le sue reali aspirazioni o che cambia idea, penso a me a ingegneria o a mio nipote che voleva mollare e non certo per la selezione. Ma poi, che proponi? Io credo che alla fine, sul piano individuale, l’unica possibilità per un insegnante sia proprio quello che dici “stretti  tra una realtà educativa sempre più difficile, combattuti tra un ricorso, spesso inevitabile, a comportamenti educativi repressivi e una realtà sociale che necessiterebbe una disponibilità di risorse umane e economiche inesistenti”.
    Quale altro comportamento se non quello di valutare caso per caso e scegliere anche quando si sa che comunque si commetterà un’ingiustizia, magari scegliere quella che senti minore. Non scegliere equivale solo a far scegliere a qualcun altro al di fuori del contesto. La “psicosociologia di sostegno” va certamente bene, ma siamo realistici, in un momento di crisi come l’attuale, questo non può essere l’obiettivo primario e se devi tagliare, tagli anche lì. Credo meglio lì che alle indennità per i portatori di handicap, ad esempio.
    Voti e condotta? Beh, se valuti usa lo strumento più appropriato. Anche lì, devo essere onesto, a scuola io studiavo anche per la paura del brutto voto e di essere rimandato. Condotta? Non so quante volte sono stato espulso e quanti 7 in condotta ho preso. Forse sono serviti ai miei professori per farmi stare un po’ più calmo, non ci vedo niente di male.
    Il fatto è che noi vorremmo eliminare l’ingiustizia dal mondo, ma è come la lotta contro la corruzione: una battaglia senza fine. Ma se si volesse eliminare del tutto la corruzione con solo misure legislative dovremmo creare una tale struttura burocratica da imbalsamare la società. Oddio non è che non ci abbiamo provato in questo paese!
    E’ una battaglia culturale, in cui possiamo avere o il ruolo di chi spinge o di chi trattiene o, peggio di tutto, di chi sta a guardare e dice “eh no, si deve fare di più e meglio”.
    Scusate, forse sono andato un po’ fuori tema. Come al solito la passione prende il sopravvento. Ma credo tutto sommato di avr espresso quello che volevo dire. Solo una precisazione, non è che sia a favore dei provvedimenti della Gelmini, non ho analizzato e soprattutto non mi sono informato al punto di sentirmi in grado di dare un parere. Però mi sembra che nel finanziamento alle università si sia introdotto un criterio meritocratico e nei concorsi si siano introdotti dei criteri di “esternità” della commissione esaminatrice e queste due cose mi vanno bene.
    Bruno Petrucci gennaio 2009

  4. Guido Morano scrive:

    Lupo ha ben ricostruito le nostre lotte contro la selezione e il loro senso politico.
    Io credo che comunque quelle lotte abbiano lasciato un segno positivo nell’organizzazione della didattica universitaria, anche se nel tempo il loro significato si sia perso nel tempo.
    Sono state quelle tutto sommato modeste conquiste  a determinare il progressivo degrado delle università italiane ? Non credo ma ancora oggi nel senso comune, oltre che nella propaganda del centro destra, la crisi del’università e della scuola nascono da li.
    Il manifesto ideologico della Gelmini e dei suoi epigoni, è tutto centrato contro il ‘68 . il ritorno ai voti, alla condotta, il richiamo alla scuola dei bei tempi sarebbero la cura per ritornare alla meritocrazia, alla valutazione e quindi alla selezione.
    In realtà tutti ignorano che la selezione sia nella scuola che nell’università c’è ed è pesante. Basta aver insegnato in un itis o in un professionale per sapere che nel biennio i livelli di selezione , nonostante la disponibilità in generale degli insegnanti, sono elevati.
    Così come all’Università: non ho sottomano le statistiche, ma su 100 che iniziano finiscono nei tempi giusti forse 30 se non di meno. E qui veniamo al dunque: se si guarda la composizione socio culturale dei selezionati emerge il dato che rende forse l’Italia particolare e in questo praticamente uguale ai nostri tempi: la probabilità che un figlio di operai arrivi alla laurea sono molto più basse di quelle di un figlio di laureati.
    Insomma  i meccanismi di selezione di merito si saranno allentati ma quelli di classe, rimangono intatti. e quindi la questione da cui anche noi siamo partiti è ancora li. Anzi,  chi ha insegnato lo sa bene,  ha assunto caratteri ancora più pesanti perché se ai nostri tempi le classi sociali inferiori erano animate, e noi con loro, da un forte bisogno di miglioramento socio culturale.
    Le classi deboli di oggi, ancorchè spesso con redditi medio alti, non vedono nella scuola e in generale nella cultura, lo strumento per una elevazione sociale . Da qui i richiami, interpretati in senso regressivo dalla destra, in senso velleitario dalla sinistra, di un passaggio ad una nuova scuola.
    Per la destra questo significa semplicemente ordine e disciplina, indifferente alla nuova didattica, alla psicosociologia di sostegno, tanto invocata in molte scuole. La sinistra cerca impossibili scorciatoie, l’obbligo a 18 anni, proponendo modelli educativi, vedi Berlinguer, tanto avanzati da diventare impraticabili. E noi che abbiamo resistito e quelli che ancora resistono, stretti  tra una realtà educativa sempre più difficile, combattuti tra un ricorso, spesso inevitabile, a comportamenti educativi repressivi e una realtà sociale che necessiterebbe una disponibilità di risorse umane e economiche inesistenti .
    Quindi che fare, quale modello , non per rendere la scuola più facile, ma per fare una didattica che sia comprensibile, abbordabile , per  dare a tutti, a questo dovrebbe servire la scuola pubblica  le stesse opportunità. Ci abbiamo combattuto tutti, almeno chi ha fatto l’insegnante, cercando di riproporre modelli e contenuti che alla fine venivano sempre da li , dalla nostra storia politica e studentesca. Poi il degrado ci ha progressivamente spinti all’indietro, nelle speranze per il futuro e nei comportamenti quotidiani, nell’indifferenza della società anche di quelli come noi che intanto il merito, quello conquistato con la laurea, anche se del ’68, la mettevano a frutto nell’industria.
    Per questo credo che quei punti, riproposti in tante mozioni mescolati velleitariamente agli slogan dell’epoca, forse un qualche valore ce l’hanno ancora.
    Guido Morano gennaio 2009

  5. Giorgio Calsamiglia scrive:

    Tre riflessioni:

    Secondo me, la lotta alla selezione meritocratica faceva innanzitutto parte di un discorso più generale di lotta alla riduzione delle disuguaglianze, dentro una visione fin troppo egualitaristica della futura società che auspicavamo. In effetti, l'eccesso di "garantismo egualitarista" e le idee antimeritocratiche hanno prodotto, nei decenni seguenti (penso soprattutto a certe battaglie sindacali, in particolare nella scuola) grandi appiattimenti e finito per legittimare ingiustificabili opportunismi, primo fra tutti il fancazzismo. 
    Detto questo, è innegabile che chi decide ciò che è meritevole e chi è meritevole non è mai una istanza super-partes (se mai potesse esistere), ma è sempre un'istanza di potere. Gli esempi sono ovunque anche oggi, e quello più eclatante è il partito-azienda, modello per eccellenza di come fanno carriera solo i più ossequiosi al Gran Capo (nella sinistra è un po' diverso, ma non moltissimo). La lotta alla selezione meritocratica era dunque fondamentalmente una lotta contro il potere, nel senso di una lotta ad uno degli strumenti materiali e ideologici per giustificare, mantenere e riprodurre lo status quo, come dici anche tu. Perciò avrebbe probabilmente dovuto essere portata avanti come uno degli aspetti della lotta per la democratizzazione delle strutture universitarie, contro le baronie, ecc, che non siamo quasi mai riusciti a fare, forse anche perchè noi stessi la consideravamo becero riformismo.
    D'altra parte, per essere una lotta antimeritocratica nel senso lotta al potere, essa avrebbe dovuto rivendicare anche criteri diversi nella attribuzione dei meriti, ma quali? Non certo esami collettivi con decisioni assembleari sui chi meritasse di più o di meno!  Del resto, se fossero veramente i più meritevoli e preparati ad accedere alle docenze universitarie, mi parrebbe ovvio e giusto attribuire loro la responsabilità di valutare, ovviamente con meccanismi trasparenti. Probabilmente occorreva cercare di diminuire in qualche modo la discrezionalità dei docenti nel giudicare, e forse rivendicare una consistente riduzione del ventaglio dei voti, ma non ne sono molto sicuro….

    Rimane il fatto, e siamo d'accordo, che, malgrado l'enfasi che mettevamo sulla lotta alla meritocrazia, le battaglie più importanti che abbiamo fatto sono state quelle per dare più opportunità di studio a chi ne aveva di meno. E questo "merito" non ce lo toglie nessuno.
    Giorgio Calsamiglia gennaio 2009

Replica al commento si Guido Paracchini (Pepè) Cancella la replica

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