Il PD al tappeto – di Giovanni Cominelli

Ogni pugile, quando va al tappeto, è inebetito. Così è oggi il PD. Senza linea politica e senza leader, lo sguardo tutto rivolto all’interno, costretto a inseguire l’agenda altrui e a fare una guerriglia puramente reattiva. Attorno al pugile groggy si affannano oggi antichi e nuovi coach. Mai come oggi il PD è apparso un partito eterodiretto da un gruppo di intellettuali-giornalisti-opinion maker: molti di costoro sono gli stessi che lo hanno spinto sull’orlo dell’estinzione, o attaccando ferocemente il leader di turno – in questo caso Renzi – o fornendo descrizioni improbabili del mondo là fuori.

Questo mondo giornalistico-intellettuale di sinistra, la cui icona resta pur sempre Eugenio Scalfari, è divenuto lungo gli anni il deposito di tutte le culture obsolete della storia della sinistra. Del resto a loro non servono elettori, bastano i lettori.

Ma, se questi gruppi di opinione hanno potuto giocare fino ad oggi un ruolo così importante, se la cinghia di trasmissione con gli intellettuali e con la cosiddetta società civile ha incominciato a girare all’incontrario, ciò si deve al fatto che, dopo Togliatti-Berlinguer, tramontati i mondi e le categorie teoriche di riferimento, i gruppi dirigenti del PCI e delle sue sigle succedanee hanno smarrito la capacità di lettura della storia d’Italia, dei mutamenti sociali e antropologici, del contesto internazionale, quasi che potesse funzionare una sorta di autonomia del politico che detta l’agenda al mondo. Invece è proprio dai mutamenti del mondo stesso – dalla totalità planetaria degli eventi e dei pensieri che li riflettono– che occorre ripartire, assumendo come primo dato che noi, la politica, i partiti ne siamo solo una variabile dipendente.

La paura di fronte mondo nuovo che viene avanti

Dunque: lo splendido dopoguerra è finito. L’età del progresso e dello sviluppo, l’età del governo bipolare del mondo, tutto ciò sta alle spalle. Nuove potenze emergenti, conflitti, guerre civili e terrorismo, mutamenti climatici, esplosione delle nascite in Africa, inverno demografico in Europa, crisi finanziaria ed economica, sviluppo bio-nano-tecnologico, intelligenza artificiale, globalizzazione e digitalizzazione – il tutto condensato in pochi decenni – che cosa stanno producendo nella mente occidentale, cioè in ciascun individuo che abiti nella parte nord-occidentale del mondo, dalla Polonia, all’Inghilterra, agli Usa?

Nella mente del progresso irreversibile, dello sviluppo continuo, dei diritti, delle libertà e della democrazia? Semplicemente, la perdita della convinzione di poter decidere del proprio futuro e del proprio destino, il senso di paura, di insicurezza. Affidarsi, come da sempre, alla politica rappresentativa e democratica? E’ vissuta come impotente, inefficace e forse inutile. Ho paura del futuro. Non importa come ho votato finora, se di destra o di sinistra. Adesso ho paura. E se sono un cittadino occidentale – americano, inglese, francese, tedesco, italiano… – ho paura del declino del mio Paese.

La paura non è un’emozione viscerale, è uno stato mentale: nasce dall’intelligenza del mondo, non dalla pancia. Non è uno spavento occasionale, è una condizione culturale che attraversa la vita quotidiana di molte persone, di molti giovani. Non è un’invenzione degli “imprenditori della paura”, è il sottoprodotto del mondo come è oggi, nel quale l’Assoluto economico-finanziario abbatte ogni giorno le frontiere bucate degli Stati nazionali, incurante dei fiori che calpesta sul suo cammino – così scriverebbe Hegel – e delle comunità nazionali. Si tratta di cosmopolitismo feroce.

Le ragioni della vittoria del pessimismo

Finora, in quanto elettore occidentale, mi sono trovato davanti due tipi di risposta politica in competizione.

  • La prima è quella pessimistica: abbiate paura! Se la rete mondiale di governo del mondo – Onu, Nato, Unione europea, Dollaro, Euro… – non regge, se l’insicurezza sta diventando la nostra condizione, se l’arena mondiale è troppo grande per ciascuno Stato e per ciascun cittadino, allora prepariamo le fortezze, scaviamo i valli e le trincee davanti a casa nostra.
  • La seconda è quella ottimistica: paura di che? Ne usciremo, come è sempre accaduto negli ultimi settant’anni. Anzi, ne stiamo già uscendo. Le nostre democrazie liberali ci hanno protetto e continueranno a farlo. Il progresso non si ferma. Di qui il messaggio dei progressisti. Di qui l’ottimismo leggermente vanesio di Renzi.

Perché ha vinto la risposta pessimista? Perché quella ottimista è apparsa inerziale, fatua, insincera: non descrive la realtà e la coscienza di essa. Più finalizzata a rassicurare i gruppi dirigenti che i cittadini. Perché ha considerato non fondata la paura, quasi fosse una creazione politica in vitro. Non l’ha presa sul serio. E quando Minniti ha lanciato l’allarme sulla tenuta della democrazia – cioè dei principi liberali – in relazione alle insorgenze virulente contro gli immigrati, è stato oggetto di sberleffi.

Se i cittadini sono convinti che gli immigrati in Italia – che sono circa l’8% – siano il 28%, questa percezione è solo frutto di disinformazione intenzionale e di ignoranza crassa o è anche prodotto di una condensazione simbolica di tutte le paure del futuro? Non sono queste che sant’Agostino ha così ben descritto nel De civitate Dei, dopo il sacco di Roma del 410?

La sinistra storica non è la risposta a Salvini e Di Maio

In questo periodo, molti venditori di almanacchi e intellettuali della cattedra spacciano punti programmatici e diete miracolose per la sinistra e per il PD. Molte sono del tutto ragionevoli, altre sono regressive. Ma una cosa è certa: se il nazional-populismo, nella duplice versione sovranista di Salvini e individualista radicale del M5S, è divenuto la nuova/antica forma di autorappresentazione della coscienza collettiva in un drammatico passaggio d’epoca, è del tutto vano contrapporvi l’assemblaggio di culture obsolete e di personale politico della sinistra storica. Né sarà l’unità della sinistra che farà risorgere la sinistra, ma l’individuazione del crinale culturale decisivo.

Ora, il crinale è quello liberal-cristiano, fondativo della moderna Europa. E’ l’idea… della persona con l’Altro contro l’individualismo delle monadi; della responsabilità contro l’egoismo feroce; dei diritti/doveri contro il dirittismo; del senso del limite contro la pretesa dell’onnipotenza; della comunità mondiale contro i nazionalismi di guerra; della concorrenza regolata contro i protezionismi e i dazi; degli Stati uniti d’Europa contro l’anarchia dei governi nazionali… Non sono i programmi che mancano al PD, è la metafisica di fondo.

Ciascuno comunica più o meno ciò che ha. Il PD ha comunicato perfettamente la propria visione confusa del mondo e l’incertezza delle categorie per interpretarlo. Ora, ci si attende che alla piattaforma Rousseau si contrapponga con pari rigore culturale la piattaforma Montesquieu.

Info su Giovanni Cominelli

Giovanni Cominelli, iscritto a Filosofia all’Università Cattolica di Milano dal 1963 al 1965, alla Frei Universität nel 1965/66, laureato in filosofia con Enzo Paci all’Università statale di Milano nel marzo del 1968. Negli anni ’70 é stato membro della Segreteria nazionale del Movimento studentesco/Movimento lavoratori per il Socialismo. Eletto nel 1980 in Consiglio comunale a Milano per l’MLS-PDUP nel 1980, nel 1981 è subentrato come Consigliere regionale a Luciana Castellina, fino al 1990. Nel novembre del 1982 è entrato nel PCI, su posizioni riformiste e miglioriste. E’ uscito dal PCI-PDS nel 2000, aderendo ai Radicali fino al 2004. Iscritto al PD dal 2015. Esperto di politiche scolastiche, dal 1985 al 2000 responsabile scuola del Pci-Pds-Ds in Lombardia e membro della Commissione nazionale scuola. Membro del Gruppo di lavoro per la Valutazione, istituito nel 2001 dal ministro Moratti, fino al 2004. Dal 2002 al 2004 membro del Comitato tecnico scientifico dell’Invalsi, poi consulente per la comunicazione fino al 2005. Dal 2003 al 2005 ha organizzato la manifestazione Job&Orienta della Fiera di Verona dedicata all’istruzione. Membro del Cda dell’Indire dal 2005 al 2006, è stato responsabile delle politiche educative della Compagnia delle Opere dal 2005 al 2007 e della Fondazione per la Sussidiarietà fino al luglio 2010. Ricercatore presso il Cisem nel 2010. Svolge attività di formazione nelle scuole. Collabora alla Rivista mensile Nuova secondaria. Ha scritto di politiche educative su Il Riformista, Tempi, Il Foglio, Avvenire, Il Sole 24 Ore e i libri La caduta del vento leggero (2007) e La scuola è finita… forse (2009). Oggi editorialista de L’ECO DI BERGAMO e di santalessandro.org, settimanale della Diocesi di Bergamo. Scrive sul Sussidiario.
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