cosa sacrificare? – di Giovanni Cominelli

Sacrificare il presente o il futuro? Sì, nel reparto di terapia intensiva dell’Ospedale Papa Giovanni di Bergamo non ci sono più malati. E si è fatto festa. Anche a Orano si festeggiò la fine della peste, almeno secondo “La peste” di Albert Camus.

La peste era finita, dunque? Solo momentaneamente! Perché, rifletteva il protagonista dottor Rieux, il bacillo della peste “…non muore né scompare mai, può restare per decine d’anni addormentato nei mobili e nella biancheria, aspetta pazientemente nelle camere, nelle cantine, nelle valige, nei fazzoletti e nelle cartacce, forse sarebbe venuto giorno in cui, sventura e insegnamento agli uomini, la peste avrebbe svegliato i suoi sorci per mandarli a morire in una città felice”. E così, fuori da quel romanzo visionario scritto nel 1947 e situato in un periodo “del 194…” – nel quale la peste è la metafora della guerra – siamo costretti a prendere atto che in questo periodo “del 202…” l’emergenza durerà, per ora, almeno fino al 31 dicembre.

Insomma, il Covid-19 si annuncia come una parentesi non breve, di lunga durata, così come lo sono le guerre. Le quali non si limitano ad interrompere la storia, ne incominciano un’altra. Benché ci siamo ripetuti scaramanticamente l’un l’altro che “nulla sarà più come prima”, nell’illusione implicita di fare solo un po’ di retorica autoconsolatoria, in realtà Covid-19 ci costringe ad uscire da illusorie e cattive continuità.

Intanto, occorre rendersi conto che il modo di produrre, di progettare, di lavorare, di commerciare e di consumare sono destinati a cambiare piuttosto in fretta, almeno nel senso che alcune dinamiche già in atto, ma interstiziali, emergeranno come prevalenti. Le categorie del “lockdown” e del “distanziamento sociale” sono divenute strategiche. Basta essere portatori – sani, si intende! – di materialismo storico per prevedere i cambiamenti che il nuovo modo di produrre provocherà nell’organizzazione sociale e familiare, nella vita di relazione dei singoli, nei loro stili di vita, nelle loro visioni del mondo.

Se la società italiana sia pronta per tali cambiamenti è tutto da verificare ed è presto per dirlo. A prima vista, parrebbe di no. Nei primi mesi della pandemia era comparso all’orizzonte un nuovo spirito di responsabilità individuale e comunitaria, a partire dalla scoperta improvvisa della fragilità individuale, sociale e, persino, della specie, dopo gli “anni gloriosi”. Questo nuovo “spirito del tempo” si è rivelato a sua volta fragile e di breve durata.

Si sta assistendo ad un ripiegamento individualistico e corporativo, in cui ciascuno ha sviluppato l’arte della lamentazione, della rivendicazione, della fuga. La vicenda fallimentare di “Immuni” è, al riguardo, altamente sintomatica. Si è levato un movimento di resistenza in nome della difesa della libertà e della privacy, tale che la App. che doveva facilitare il tracciamento del Covid-19 è stata scaricata da una piccola minoranza.

Di fatto è inutilizzabile. E se il tracciamento è inattuabile, non resta che il metodo millenario – usato anche a Orano – del confinamento e del lockdown. Dentro il quale, basta il comportamento irresponsabile di un singolo per provocare infezioni a catena.

Ma ciò che resta più grave è quanto accaduto soprattutto nella Pubblica amministrazione e nella Scuola e che ha toccato tutti i settori sociali. L’invocazione dell’intervento statale si è innalzata come un “grido di dolore” a coprire le falle della deresponsabilizzazione parassitaria degli individui. E’ emersa in tutta la sua evidenza “la dottrina dello Stato” degli Italiani: lo Stato sono gli altri. I sindacati, in particolare quelli del pubblico impiego e della scuola, e la politica hanno democraticamente rispecchiato quella dottrina.

Peggio, è emersa una dottrina infantile delle relazioni internazionali. Tutta la nostra geopolitica si riduce a chiedere all’Europa di aiutarci, a fondo perduto, senza condizionalità di nessun genere, senza impegno di riforme. Non che prima queste tendenze antropo-culturali non fossero già egemoni da qualche decennio. Il Covid-19 le ha legittimate.

La scelta di sacrificare il futuro

L’alternativa secca che il Covid-19 ha messo davanti all’intero Paese, al popolo e alla sua classe dirigente è sempre la stessa dagli anni ’90: sacrificare una quota del presente per salvare il proprio futuro o sacrificare l’intero futuro per salvare il proprio presente?

Negli ultimi decenni, la maggioranza schiacciante degli Italiani e delle loro rappresentanze politiche hanno scelto questo secondo corno del dilemma. Di fronte a questa scelta sono vani tanto il “ridére” quanto il “lugére”, cui si è facilmente tentati.

Quanto all’”intellìgere”, è utile solo se si trasforma in movimento di risveglio e di cambiamento. E’ questo il momento delle minoranze creative. Non sono minoranze arrabbiate, risentite, lamentose. Della rabbia, dal risentimento, del lamento è già portatrice la maggioranza di questo Paese. Sono creative, appunto. E ostinate.
Come quelle di cui parla Isaia nel suo oracolo sull’Idumea – l’attuale Giordania – oppressa dagli Assiri, che interpellano la sentinella: “Sentinella, quanto resta della notte? Viene il mattino, poi anche la notte; se volete domandare, domandate, convertitevi, venite!

Il Covid-19 richiede una severa ascesi intellettuale e politica della crisi. Che è in primo luogo un’ascesi personale. Quindi? La risposta sul “che fare” la suggeriva Max Weber nel discorso di congedo agli studenti della Humboldt Universität a Berlino, nel novembre del 1918, in piena catastrofe della Germania, nel quale citava l’oracolo di Isaia: “Ne vogliamo trarre l’ammonimento che anelare ed attendere non basta, e ci comporteremo in un’altra maniera: ci metteremo al nostro lavoro e adempiremo al “compito quotidiano” – nella nostra qualità di uomini e nella nostra attività professionale. Ciò è semplice e facile, quando ognuno abbia trovato e segua il demone che tiene insieme i fili della sua vita”.

Già! Tenere insieme persona, esistenza, impegno storico. Dovremmo oggi integrare quel discorso con l’appello all’esercizio dell’attività “professionale” di cittadini, cioè alla militanza pubblica. Il cui fondamento è : “Lo Stato sono io”. Ovviamente, non si tratta di una citazione di Luigi XIV.

Info su Giovanni Cominelli

Giovanni Cominelli, iscritto a Filosofia all’Università Cattolica di Milano dal 1963 al 1965, alla Frei Universität nel 1965/66, laureato in filosofia con Enzo Paci all’Università statale di Milano nel marzo del 1968. Negli anni ’70 é stato membro della Segreteria nazionale del Movimento studentesco/Movimento lavoratori per il Socialismo. Eletto nel 1980 in Consiglio comunale a Milano per l’MLS-PDUP nel 1980, nel 1981 è subentrato come Consigliere regionale a Luciana Castellina, fino al 1990. Nel novembre del 1982 è entrato nel PCI, su posizioni riformiste e miglioriste. E’ uscito dal PCI-PDS nel 2000, aderendo ai Radicali fino al 2004. Iscritto al PD dal 2015. Esperto di politiche scolastiche, dal 1985 al 2000 responsabile scuola del Pci-Pds-Ds in Lombardia e membro della Commissione nazionale scuola. Membro del Gruppo di lavoro per la Valutazione, istituito nel 2001 dal ministro Moratti, fino al 2004. Dal 2002 al 2004 membro del Comitato tecnico scientifico dell’Invalsi, poi consulente per la comunicazione fino al 2005. Dal 2003 al 2005 ha organizzato la manifestazione Job&Orienta della Fiera di Verona dedicata all’istruzione. Membro del Cda dell’Indire dal 2005 al 2006, è stato responsabile delle politiche educative della Compagnia delle Opere dal 2005 al 2007 e della Fondazione per la Sussidiarietà fino al luglio 2010. Ricercatore presso il Cisem nel 2010. Svolge attività di formazione nelle scuole. Collabora alla Rivista mensile Nuova secondaria. Ha scritto di politiche educative su Il Riformista, Tempi, Il Foglio, Avvenire, Il Sole 24 Ore e i libri La caduta del vento leggero (2007) e La scuola è finita… forse (2009). Oggi editorialista de L’ECO DI BERGAMO e di santalessandro.org, settimanale della Diocesi di Bergamo. Scrive sul Sussidiario.
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