inverno demografico – di Giovanni Cominelli

lI Bilancio demografico nazionale 2019, reso noto dall’ISTAT qualche giorno fa, è scivolato immediatamente nelle retrovie della discussione pubblica. L’ISTAT: vox clamantis in deserto…

Siamo ad un nuovo minimo storico delle nascite dall’Unità d’Italia. In cinque anni abbiamo perso 551.000 residenti. Di questo passo, al 2050 saremo il 17% in meno, cioè 10 milioni in meno, cioè 50 milioni, la cui fascia più larga di età sarà quella dei sessantenni.

E’ lo scenario di un declino fisico e demografico che sottoproduce – ed è sottoprodotto da – quello produttivo, sociale, culturale, in un fatale circolo vizioso. E’ il declino della civilizzazione italiana. Né chi proclama lo slogan “Prima gli Italiani” né chi lo anatemizza, né la società civile né quella politica, occupate dalla bulimia del presente, si danno tempo di pensare all’Italia.

Prima gli Italiani? Sì, ma solo quelli di oggi! Non pensano agli Italiani di domani gli anziani, che al 2050, ma anche prima, saranno tutti morti; non gli adulti oggi maturi, che al 2050 saranno molto anziani, ma protetti dalle ultime pensioni dell’ultimo Welfare; non i giovani, illusi dall’ideologia dominante che il futuro venga loro incontro migliore per diritto di nascita.

Ora, l’inverno demografico non è affatto una deriva “naturale”, è una scelta sociale e personale. Comprenderne il perché è il primo passo per farne, possibilmente, un’altra.I In questi anni sono state proposte varie spiegazioni di questo mega-trend, quasi tutte di contenuto storico-sociale, quasi tutte ricche di frammenti di verità. Chi lamenta la mancanza di politiche della famiglia, chi denuncia la cattiva organizzazione del mercato del lavoro e del lavoro in azienda, chi l’effetto terroristico del catastrofismo apocalittico relativo all’esplosione demografica mondiale o alla crisi climatica o ai rischi di una guerra nucleare e/o batteriologica, chi l’edonismo e il nichilismo delle generazioni moderne, chi la perdita di Dio.

Eppure, proprio il prof. Gian Carlo Blangiardo sottolinea come dalle ricerche ISTAT risulti un permanente desiderio di maternità da parte delle giovani donne in età. Va solo annotato che la spinta alla maternità delle donne non è più, principalmente, innescata da un contesto sociale che le piegava quasi costrittivamente nella funzione-destino di riproduttrici, bensì da una motivazione di autodeterminazione e di autorealizzazione.

Che cosa si interpone tra quel desiderio e lo scacco finale del suo compimento, i cui effetti individuali accumulati producono conseguenze sociali e storiche enormi?
La risposta di rito è che non sono state realizzate da decenni delle politiche che creassero un contesto socio-culturale favorevole alla maternità, senza pregiudicare carriera, realizzazione professionale, autodeterminazione delle donne. La società italiana è tuttora decisamente maschilista nell’economia, nella società, nell’Amministrazione statale, nella politica. Così, se una donna vuole realizzarsi in una dimensione economico-sociale e pubblica, la maternità diviene una pietra di inciampo.

Se vuole accedere alla maternità, deve chiudersi in casa e in famiglia. Perciò, molte giovani donne, poste di fronte al bivio, scelgono la realizzazione di sé. Possono, e accade sempre più frequentemente, anche fare un figlio – non più di uno – quale tappa della propria realizzazione: ragazze single con un figlio. Ne basta uno per la realizzazione di sé, ma ne servirebbero due per garantire il saldo tra vivi e morti. Perché non sono state implementate le politiche per la maternità? La spiegazione maschilista non basta.

Dietro ce ne stanno altre due: una visione agnostico-scettica della collocazione dell’Italia in Europa e nel mondo e un’ antropologia filosofica nichilista.

Quanto alla collocazione dell’Italia nella storia europea e mondiale, dopo il tentativo del Fascismo di creare un robusto senso della Patria nella mente degli Italiani, non è seguito, dopo, quasi più nulla. Da parte del cattolicesimo politico è arrivato un soffio di europeismo, che non ha prodotto scarse conseguenze culturali sulla costruzione della coscienza della Patria e del suo destino in Europa e nel mondo.

Acquattati all’ombra della Nato, ci siamo rinchiusi dentro i nostri confini. Gli interessi energetici ci hanno proiettato per una stagione verso il Sud del Mediterraneo. Ma la Nato e l’Europa hanno funzionato come pigra copertura e come alibi per una politica mai divenuta veramente “estera”, rimasta “interna”, anche quando si occupava del mondo “là fuori”.

Quanto alla sinistra ad egemonia PCI, il suo sguardo “internazionalista” ha sottoprodotto per decenni il filosovietismo, il neutralismo, e, persino, il silenzio sulle foibe titine. Salvo, si intende, l’europeismo di una minoranza migliorista e dei socialisti di Craxi.

Ora, se non abbiamo “una missione” nel mondo, che ci importa del nostro futuro come Paese? Respingendo la torsione nazionalista e imperialista impressa dal Fascismo all’idea di Patria, l’Italia repubblicana si è abbandonata ad un agnosticismo scettico. La politica del debito pubblico, la cui ascesa è incominciata nel 1976, è l’effetto e il segnale più clamoroso di tale approccio, che Andreotti ha incarnato a lungo. La non-politica della famiglia, della maternità, dell’emancipazione/liberazione della donna ne ha costituito il corollario.

Quanto all’antropologia filosofica che sta dietro l’inverno demografico – non importa quanto consapevole, ma quanto praticata – essa è il prodotto della secolarizzazione rapidissima e irreversibile del cattolicesimo e del marxismo.

Nel cattolicesimo, l’uomo non è semplicemente una proprietà emergente delle relazioni econonomico-sociali, è un nucleo ontologico, radicato nella Trascendenza, cioè nell’Altro. E’ lì che si fondano la libertà e la responsabilità sociali della persona. Nel messaggio cristiano la salvezza non è una vicenda individuale, se non nella misura in cui l’individuo diventa persona, rispondendo dell’altro con gli altri. E. Mounier, di cui quest’anno cade il settantesimo della morte, lo chiamava “personalismo comunitario” e la società che ne risulta una “una persona di persone”.

Nel marxismo e nei movimenti politico-sociali che ha generato, l’uomo è certamente il prodotto dell’intersezione tra forze produttive e rapporti di produzione – dunque un prodotto sociale – ma la sua realizzazione/liberazione non è immanente a lui stesso, si sviluppa a partire dal suo radicamento fuori di sé, nella trascendenza del movimento storico di liberazione.

In ambedue i casi, la trascendenza ontologica e la trascendenza della storia collettiva rispetto all’individuo sono dimensioni essenziali della persona che vive sì nel presente, ma che è orientata all’altro, si gioca dentro un destino condiviso con gli altri.

La crisi della visione progressista, nella sua versione cattolica e in quella di sinistra, in forza della quale la persona dispone di una propria energia originaria di cambiamento della storia, ha consegnato il Paese, i suoi mass-media, i suoi opinion-maker, la sua scuola, le sue strutture educative ad un agnosticismo fatuo, ad un nichilismo disperato, ad una solitudine passiva, senza storia.

Poiché “del doman non c’è certezza”, soprattutto dopo la peste del 2020, ci troviamo senza patria e senza storia e ci dedichiamo a consumare bulimicamente il presente, la cui fruizione non deve essere minimamente differita. Perché, dunque, fare figli? Meglio, eventualmente, un animale di compagnia! La patologia è sempre la stessa: un Paese inebetito dal populismo sovranista ed assistenziale non ha più voglia di futuro. E perciò collassa, in una generale “allegria di naufragi”.

Sì, una “riforma intellettuale e morale” del Paese aiuterebbe…

Info su Giovanni Cominelli

Giovanni Cominelli, iscritto a Filosofia all’Università Cattolica di Milano dal 1963 al 1965, alla Frei Universität nel 1965/66, laureato in filosofia con Enzo Paci all’Università statale di Milano nel marzo del 1968. Negli anni ’70 é stato membro della Segreteria nazionale del Movimento studentesco/Movimento lavoratori per il Socialismo. Eletto nel 1980 in Consiglio comunale a Milano per l’MLS-PDUP nel 1980, nel 1981 è subentrato come Consigliere regionale a Luciana Castellina, fino al 1990. Nel novembre del 1982 è entrato nel PCI, su posizioni riformiste e miglioriste. E’ uscito dal PCI-PDS nel 2000, aderendo ai Radicali fino al 2004. Iscritto al PD dal 2015. Esperto di politiche scolastiche, dal 1985 al 2000 responsabile scuola del Pci-Pds-Ds in Lombardia e membro della Commissione nazionale scuola. Membro del Gruppo di lavoro per la Valutazione, istituito nel 2001 dal ministro Moratti, fino al 2004. Dal 2002 al 2004 membro del Comitato tecnico scientifico dell’Invalsi, poi consulente per la comunicazione fino al 2005. Dal 2003 al 2005 ha organizzato la manifestazione Job&Orienta della Fiera di Verona dedicata all’istruzione. Membro del Cda dell’Indire dal 2005 al 2006, è stato responsabile delle politiche educative della Compagnia delle Opere dal 2005 al 2007 e della Fondazione per la Sussidiarietà fino al luglio 2010. Ricercatore presso il Cisem nel 2010. Svolge attività di formazione nelle scuole. Collabora alla Rivista mensile Nuova secondaria. Ha scritto di politiche educative su Il Riformista, Tempi, Il Foglio, Avvenire, Il Sole 24 Ore e i libri La caduta del vento leggero (2007) e La scuola è finita… forse (2009). Oggi editorialista de L’ECO DI BERGAMO e di santalessandro.org, settimanale della Diocesi di Bergamo. Scrive sul Sussidiario.
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Una risposta a inverno demografico – di Giovanni Cominelli

  1. Giovanni Cominelli scrive:

    Il prof. Gian Carlo Blangiardo, presidente dell’ISTAT, mi segnala che nel mio ultimo articolo ho fornito due cifre imprecise.
    Mentre ringrazio il Prof. Blangiardo, mi scuso con i lettori e mando le cifre giuste.
    Una è migliore: nel 2050 non saremo 50 milioni, ma 57 milioni. E’ una bella differenza!
    Una è peggiore: la fascia di età più estesa non sarà costituita genericamente da ultrasessantenni, ma da settantacinquenni.
    Auguri a chi ci arriverà!

    Giovanni c.

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