le ragioni del flop – di Claudio Cereda

Il marxismo ha fatto flop perché la storia è andata da un'altra parte e si potrebbe finire qui anche se non ci fossero state le ben note degenerazioni che hanno visto la compresenza di comportamenti eroici sul piano individuale e di crimini di massa contro l'umanità.

L'articolo di Alvaro Ricotti parte da lontano e ci riporta alla memoria anche questioni che la versione comunista-leninista del marxismo ci aveva fatto ignorare o dimenticare. In realtà intorno alla necessità di dare una mano alla contraddizione fondamentale tra rapporti sociali di produzione ingabbianti e forze produttive aspiranti allo sviluppo c'è stata una bella discussione più di un secolo fa.

Hanno vinto i comunisti ed è diventato indiscutibile l'argomento secondo cui nell'era dell'imperialismo l'anello più debole della catena era costituito dalle società meno avanzate ed era da loro che doveva partire l'esperimento.

scorciatoie comuniste

Ciascuna società non avanzata poteva diventare l'apripista per la società socialista e le tappe di sviluppo previste dal materialismo storico si potevano accelerare o saltare purchè ci fosse il partito di avanguardia della classe operaia a governare il processo. E' emblematico il caso della bandiera cinese in cui sullo sfondo rosso svetta la stella gialla a 5 punte che rappresenta il partito comunista ed essa è contornata dalle 4 stelle più piccole di uguale dimensione (la classe operaia, i contadini, la piccola borghesia, i capitalisti). In ossequio alla diversità cinese, rispetto alla proposta originale, non è stata accolta la presenza della falce e martello all'interno della stella principale e, a guardare da quello che è successo dopo, la scelta di marcare la diversità, ha portato bene.

In ogni caso:

  • a volte ci si metteva il disastro di una guerra mondiale come in Russia (trasformare la guerra imperialista in guerra civile rivoluzionaria, raccomandava Lenin),
  • altre volte si trattava di trasformare una lotta di liberazione nazionale in lotta per il socialismo (come in Cina, in Jugoslavia o nell'intero sud-est asiatico),
  • in altri casi era la necessità di redimere un paese trasformato in un casinò-puttanaio come nel caso di Cuba,
  • in altri casi ancora il socialismo era l'effetto di una occupazione militare e della divisione del mondo in blocchi (come nel caso delle democrazie popolari spuntate come funghi nelle zone liberate/conquistate dalla Armata Rossa).

Quella del comunismo tentato/realizzato è di una storia conclusasi in ritardo sul finire del secolo breve; in ritardo rispetto ad un declino nella capacità di competere con l'altra metà del mondo in termini di risultati economici, sociali e di sviluppo. E' un declino iniziato già al termine della seconda guerra mondiale e mantenuto sottotraccia dalla competizione in ambito militare e nel controllo dello spazio.

L'Italia fuori dall'ombrello della Armata Rossa, ma con il partito comunista più forte, radicato e organizzato dell'Occidente, è stata terreno di competizione: via italiana al socialismo, terza via, … dentro un sistema democratico funzionante cui hanno dato un importante contributo i comunisti e le scelte ferme e lungimiranti di De Gasperi e al termine della sua vita lo stesso Berlinguer, dopo anni di tentennamenti (e di finanziamenti) dovette riconoscere che si era esaurita la spinta propulsiva della rivoluzione d'Ottobre.

Un discorso a parte riguarda la tenuta del sistema cinese che, con la applicazione della massima secondo cui non importa di colore siano i gatti, basta che acchiappino i topi, ha prodotto un sistema altamente sviluppato dal punto di vista produttivo, scientifico e tecnologico che sta continuando, in particolare in Africa, la costruzione di una sua zona di influenza, mentre sui mercati internazionali, in particolari su quelli finanziari, compete e compra il debito dei paesi capitalisti (gli USA in primis). La differenza di fondo rispetto al sistema sovietico è dato dalla grande disponibilità di capitali, dalla efficienza e dalla massa critica in termini di popolazione.

Per tornare al marxismo la penso grosso modo così:

  • Penso che l'utilizzo del materialismo storico come strumento di analisi della storia umana, affiancandolo ad altri contributi prodotti dalla cultura umana sia utile ed accettabile. Sono i sistemi materiali e le contraddizioni dovute ai rapporti sociali diseguali all'interno degli stati e tra gli stati a fare da motore della storia. E in questo ambito a volte vincono i più bravi. altre volte i più forti.

In seconda istanza agiscono poi moventi di natura ideologico-religiosa che in taluni contesti possono divenire prevalenti.

  • Non penso che esistano classi portatrici di una visione salvifica della umanità, nè sul piano interno, nè sul piano internazionale. La classe che porta dentro di sè il proprio annullamento e la redenzione del genere umano non esiste.

Alla luce delle analisi della sociologia del 900, è probabilmente improprio parlare di classi, vista la frammentazione sociale e la mancanza di un comune sentire. Partendo da Hegel, Marx arriva al proletariato che ha da perdere solo le proprie catene e quindi …  E quindi le cose al tribunale della storia sono andate diversamente senza bisogno di cercare altre smentite che potremmo trovare nella vita di ogni giorno.

  • Penso che, nel cercare di salvarlo dalla tesi di non scientificità, siano state avanzate dai suoi sostenitori le proposte più bizzarre.

Quando poco più di 40 anni fa mi imbattei nella epistemologia e nella filosofia di Popper politica dovetti ammettere che la sua scelta di mettere sullo stesso piano, come esempi di teorie non scientifiche, l'astrologia, la psicanalisi (nelle due versioni Freud e di Adler) e il marxismo era sostanzialmente corretta.

Le tre teorie erano accomunate dalla possibilità di cambiare le carte in tavola per fare in modo che un fatto singolo, un fatto storico, un comportamento difforme a quanto previsto dalla teoria, non smentissero la teoria stessa attraverso la introduzione di ipotesi ad hoc.

Una ipotesi ad hoc è una ipotesi aggiuntiva che modifica leggermente i postulati di partenza per fare in modo che si possa sotenere che la teoria continua a stare in piedi e sarà così, sino al prossimo controesempio, per sistemare il quale servirà una nuova ipotesi ad hoc.

Scriveve Popper rielaborando la conferenza del 1953 che fa dà titolo alla raccolta congetture e confutazioni:


  1. È facile ottenere delle conferme, 'verifiche', per quasi ogni teoria - se quel che cerchiamo sono appunto delle conferme.
  2. Le conferme dovrebbero valere solo se sono il risultato di previsioni rischiose; vale a dire nel caso che non essendo illuminati dalla teoria in questione, ci saremmo dovuti aspettare un evento incompatibile con essa, un evento che avrebbe confutato la teoria.
  3. Ogni teoria scientifica «valida» è una proibizione: essa preclude l'accadimento di certe cose .. Quante più cose preclude, tanto migliore essa risulta: . .
  4. Una teoria che non può essere confutata da alcun evento concepibile, non è scientifica. L'inconfutabilità di una teoria non è (come spesso si crede) un pregio, bensì un difetto.
  5. Ogni controllo genuino di una teoria è un tentativo di falsificarla, o di confutarla. La controllabilità coincide con la falsificabilità; vi sono tuttavia dei gradi di controllabilità: alcune teorie sono controllabili, o esposte alla confutazione, più di altre; esse, per cosi dire, corrono rischi maggiori. .
  6. I dati di conferma non dovrebbero contare se non quando siano il risultato di un controllo genuino della teoria  e ciò significa che quest'ultimo può essere presentato come un tentativo serio, benché fallito, di falsificare la teoria. In simili casi parlo ora di «dati corroboranti».
  7. Alcune teorie genuinamente controllabili, dopo che si sono rivelate false, continuano ad essere sostenute dai loro fautori - per esempio con l'introduzione, ad hoc, di qualche assunzione ausiliare, o con la reinterpretazione ad hoc della teoria, in modo da sottrarla alla. confutazione. Una procedura del genere è sempre possibile, ma essa può salvare la teoria dalla confutazione solo al prezzo di distruggere, o almeno pregiudicare, il suo stato scientifico. Ho descritto in seguito una tale operazione di salvataggio come una «mossa» o. «stratagemma convenzionalistico».

Si può riassumere tutto questo dicendo che il criterio dello stato scientifico di una teoria è la sua falsificabilità, confutabilità, o controllabilità.

....

La teoria marxista della storia, nonostante i seri tentativi di alcuni dei suoi fondatori e seguaci, fini per adottare questa tecnica divinatoria.

In alcune delle sue prime formulazioni, per esempio nelI'analisi marxiana della «incombente rivoluzione sociale», le previsioni erano controllabili, e di fatto furono falsificate.

Tuttavia, invece di prendere atto delle confutazioni,i seguaci di Marx reinterpretarono sia la sua teoria che i dati per farli concordare. In questo modo essi salvarono la teoria dalla confutazione ma poterono farlo al prezzo di adottare un espediente che la rendeva inconfutabile. In tal modo essi imposero una «mossa convenzionalistica» alla teoria e con questo stratagemma eliminarono la sua conclamata pretesa di possedere uno stato scientifico.


Naturalmente la elaborazione di Popper è molto complessa ed articolata e il filosofo inglese ha dedicato a questo tema interi volumi riguardanti la filkosofia politica: La società aperta e i suoi nemici dedicato alla confutazione del totalitarismo e dei suoi padri filosofici (nel secondo volume Hegel e Marx), Alla ricerca di un mondo migliore, Miseria dello storicismo.

In proposito c'è un elemento interessante che ha a che fare con la genesi delle idee; Popper in gioventù, come racconta nella sua autobiografia La ricerca non ha fine, fu un socialista rivoluzionario prossimo ad accostarsi ai movimenti comunisti della Vienna degli anni venti. Se ne distaccò quando ebbe modo di misurare la doppia morale di quei dirigenti che mandavano i militanti a morire negli scontri con la polizia senza porsi alcun problema che non fosse quello della giustezza dell'idea..

la mia adesione al marxismo rivoluzionario e … il distacco

L'ho già scritto in diverse occasioni non sono diventato di sinistra perché ero marxista, ma il mio processo è stato quello inverso e dunque fin dalla fine degli anni 60 non mi sono mai particolarmente appassionato alle dispute ideologiche, incluse quelle sulla scientificità del marxismo e quelle sulla corretta interpretazione del medesimo. Inoltre alla mia generazione è rimasto precluso, in quanto poco conveniente e pericoloso, l'approfondimento sulla diaspora interna al marxismo e che produsse la divisione tra socialisti e comunisti (e questo è stato un bell'handicap perché abbiamo mancato di approfondire una questione intrerna al movimento progressista, dandola già risolta una volta per tutte).

Se un giovane di 20 anni legge il Manifesto del Partito Comunista ne resta affascinato. Lì dentro c'è la palingenesi del mondo nuovo sul piano dei costumi e della società da realizzare. Se al Manifesto associamo quel capolavoro della utopia che è Stato e Rivoluzione di Lenin il gioco è fatto. Lenin ha in mente l'esperimento sociale della comune di Parigi del 1870 e ci parla di una società, quella comunista, in cui gli uomini si autodeterminano, in cui le classi scompaiono, in cui lo stato si estingue in cui la società, depurata dai conflitti di classe potrà essere amministrata a turno da un grande intellettuale, ma anche da una cuoca.perché tutte le contraddizioni tra gli uomini saranno scomparse e rimarranno solo quelle tra uomo e natura.

Nel mio caso è andata così; la formazione cultrurale di partenza era permeata di ansie di rinnovamento sociale e Lenin e il comunismo ne furono i traghettatori senza mediazioni.

Le stesse discussioni del dopo Marx, quelle che portarono alla nascita della II internazionale, alla successiva separazione dei comunisti dai socialisti, alle soglie e nel pieno della prima guerra mondiale, noi le abbiamo conosciute attraverso il punto di vista della III internazionale (quella del rinnegato Kautsky). Personalmente ero appassionato di storia del movimento operaio ma ciò che leggevo veniva esclusivamente dalla storiografia comunista ed era dunque filtrato da una divisione a monte tra buoni e cattivi.

Il bolscevismo nasce come forzatura. I bolscevichi (minoranza) si separarono dai menscevichi (maggioranza) operando una scissione nel Partito Operaio Socialdemocratico russo, in nome del primato della politica rivoluzionaria rispetto ai rapporti sociali, come volontà che si fa organizzazione. Quella proposta, tradotta in pratica, aveva fatto una rivoluzione nel più grande stato d'Europa i cui confini immensi arrivavano sino al Giappone e dunque avevano avuto ragione. Certo:.

  • c'erano stati parecchi problemi: la guerra imperialista non si era trasformata in guerra civile rivoluzionaria sui fronti della I guerra mondiale,
  • nel dopoguerra c'erano stati tentativio di fare come la Russia in mezza Europa ed erano clamorosamente falliti: in Germania (gli spartachisti), in Ungheria (Bela Khun) e in Italia (l'occupazione delle fabbriche)
  • in Russia alla fase iniziale di grande apertura e rivoluzione sul piano del costume, delle arti e della struttura soviettista dello stato era subentrata l'epoca dei compromessi e della real politik (ma tutto era dovuto alla morte di Lenin e all'avvento dello stalinismo, dicevamo in chiave consolatoria, mentre la questione di Kronstad rimaneva in ombra)
  • in Europa si era avuta una estesa adesione a modelli di stato totalitario (Italia, Germania, Ungheria, Spagna) e bisognava stringersi in difesa dello stato del socialismo in un paese solo

Per dirla con Popper per ogni contraddizione nella teoria era possibile una contromossa convenzionalistica. Noi di Avanguardia Operaia avevamo poi alle spalle un piccolo fortilizio ideologico e culturale basato sulle elaborazioni di alcuni allievi di Althusser tra cui Nicos Poulantzas (Potere Politico e Classi Sociali, Fascismo e dittatura) che, nell'analizzare le tre sfere del mondo (quella dell'economia, della politica e della ideologia), individuava, pur in una analisi classica sul ruolo determinante della sfera economica, un ruolo specifico di autonomia per la sfera politica. Tanto bastava per garantire la liceità di ogni contromossa necessaria.oltre che dare un sostegno teorico ad ogni forma di volontarismo.

Abbiamo scoperto Gramsci in ritardo perché comunque su Gramsci c'era una forte ipoteca togliattiana e discutere di Gramsci avrebbe comportato fare i conti con la storia del PCI, con la sua elaborazione teorica e con la sua politica. Era meglio ragionare dei revisionisti e delle loro colpe. E' stato così che, nella fase di massimo sviluppo delle lotte sociali e di quelle culturali, alla prima prova dei fatti, abbiamo scoperto che quella minoranza che stava con noi quando c'era da lottare (le mitiche avanguardie di classe) votava PCI e continuava a farlo, quando c'era da votare. Ne ho già scritto nella autobiografia in La parabola di AO.

cosa ci resta?

Quando tra il 76 e il 77 prendemmo atto che la sinistra rivoluzionaria o nuova sinistra non aveva alcuna ragion d'essere lo facemmo mettendo nel nostro agire politico alcuni punti fermi che per me sono rimasti tali:

  • la democrazia occidentale basata sui diritti, la separazione dei poteri, il rispetto delle regole, la democrazia come valore assoluto (che per me vuol dire democrazia governante e garanzia del ricambio)
  • riferimento all'Europa come grande progetto da costruire in termini di Stati UNiti d'Europa
  • solidarietà internazionale e battaglia per la pace, che non significa nel mio caso opzione morale di tipo pacifista e rifiuto delle armi, ma politiche attive per lo sviluppo e rifiuto dello strumento della forza nella soluzione delle controversie internazionali
  • rispetto per le culture diverse dalla nostra ma avendo come punto fermo i vincoli postio dalla difesa attiva della democrazia

Come vedete non ho fatto una analisi della situazione economica a livello mondiale, delle contraddizioni, delle diversità tra i diversi sistemi. Stiamo discutendo di un'altra cosa, non mi piace parlare d'altro e aggiungo anche che non mi sento all'altezza. Al più posso evidenziare dei problemi, delle domande che mi intrigano (e l'ho già fatto nella sezione dedicata alla discussione) ma non mi sogno di inventare le proposte per lo schieramento progressista mondiale del XXI secolo.

Info su Claudio Cereda

nato a Villasanta (MB)il 8/10/1946 | Monza ITIS Hensemberger luglio 1965 diploma perito elettrotecnico | Milano - Università Studi luglio 1970 laurea in fisica | Sesto San Giovanni ITIS 1971 primo incarico di insegnamento | 1974/1976 Quotidiano dei Lavoratori | Roma - Ordine dei Giornalisti ottobre 1976 esame giornalista professionista | 1977-1987 docente matematica e fisica nei licei | 1982-1992 lavoro nel terziario avanzato (informatica per la P.A.) | 1992-2008 docente di matematica e fisica nei licei (classico e poi scientifico PNI) | Milano - USR 2004-2007 concorso a Dirigente Scolastico | Dal 2008 Dirigente Scolastico ITIS Hensemberger Monza | Dal 2011 Dirigente Scolastico ITS S. Bandini Siena | Dal 1° settembre 2012 in pensione | Da allora si occupa di ambiente e sentieristica a Monticiano e ... continua a scrivere
Questa voce è stata pubblicata in Cultura, Storia e contrassegnata con , , , , , , , , , , , , , , , . Contrassegna il permalink.

4 risposte a le ragioni del flop – di Claudio Cereda

  1. Lorenzo Baldi scrive:

    Leggendo questa riflessione (e avendo letto la tua autobiografia), la prima cosa che mi viene in mente è che abbiamo dei punti di partenza molto distanti ma siamo arrivati a conclusioni molto simili.
    Infatti sottoscrivo pienamente i 4 punti finali, nel merito e, soprattutto, nel metodo, come affermazioni non sistematiche ed empiricamente confermate, sullo sfondo del troppo dimenticato Churchill (di cui mi onoro di aver letto l’intera storia della II Guerra Mondiale in lingua originale e… sono stanco ancora adesso): “È stato detto che la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle altre forme che si sono sperimentate finora”.
     
    Sono arrivato al marxismo senza aver mai affrontato la politica in tutta la vita precedente ai 16 anni. Non si sapeva come avessero votato i miei genitori, tranne quando, più tardi hanno votato me per il Comune (anche se, come vedremo, qualche buona lettura girava per casa).
    I miei compagni di merende erano fanatici dei motori e passavamo i pomeriggi a fare motocross, o in giro con la motoleggera (si diceva così) attorno al lago di Como e su e giù per le montagne circostanti, riuscendo straordinariamente a non farci del male.
    Quando i giovani liberali saronnesi organizzarono una manifestazione – era già il ’69 – in onore di Ian Palach e contro l’invasione della Cecoslovacchia non capii bene e rimasi a guardare. Ma i giornali li leggevo ogni giorno e cominciavo a realizzare quel che mi accadeva attorno.
     
    Non ho mai avuto un’educazione cattolica. Ho fatto la prima comunione e mia mamma ha ripreso a frequentare la Messa per accompagnarmi e darmi il buon esempio ma, dopo il trasloco in un’altra città, nessuno in famiglia si è più preoccupato di frequentare la parrocchia.
    Un giorno estrassi dalla libreria di famiglia “L'existentialisme est un humanisme” di Jean Paul Sartre e fui folgorato dal nesso inscindibile tra ateismo e libertà umana.
    La tremenda responsabilità di darsi un senso fu temperata molto presto dalla lettura del “Manifesto del Partito Comunista”, anche questo presente nella libreria di casa in un’edizione presentata da tre saggi di Antonio Labriola.
    Dimostravo poca comprensione della posizione di Sartre, ma l’idea che la storia avesse una direzione di marcia indicava il cammino anche per ciascuno degli esseri umani, me compreso.
    Ora sapevo dove andare e, di lì a pochi mesi,  mi trovai, con il meglio del ’68 locale, a tenere i doposcuola nei quartieri popolari: per me, la politica e l’impegno sociale furono un dovere che discendeva da presupposti etico-filosofici.
    Studiai molto la teoria del marxismo e la storia del movimento operaio e, lungo questo percorso transitai attraverso Avanguardia Operaia per approdare al Pci.
     
    Il castello ideologico cominciai a smontarlo a cavallo tra i ’70 e gli ’80, sotto due influenze convergenti: un crescente interesse per l’arte contemporanea, la cui comprensione – da Duchamp in poi, soprattutto – ha una stretta relazione con il “pensiero negativo”; e la frequentazione di Paolo Sorbi (con un passato in Lotta Continua e un futuro nel cattolicesimo integrale) che, a Milano e con il patrocinio delle Acli (come il cattolicesimo di sinistra milanese abbia colto ogni occasione per sostenere la sinistra eterodossa in funzione anti-Pci è una storia da scrivere), teneva un circolo di giovani che guardavano a Massimo Cacciari, Mario Tronti e la sua “autonomia del politico”, Don Gianni Baget Bozzo e Gianfranco Miglio. Piervito Antoniazzi apriva fisicamente la porta per le nostre riunioni. Attraverso questo percorso e queste letture mi sono liberato dalla filosofia della storia e da un’idea del sapere come totalità unificante, a favore della molteplicità delle discipline e degli approcci, anche, creativi.
     
    Mi hanno poi convinto ad abbanonare la politica (dove avevo ricostruito un ruolo nella federazione varesina del Pci) e dedicarmi con più convinzione al lavoro di piccolo imprenditore un paio di episodi, nel corso degli anni ’80. La “Marcia degli onesti” dell’autunno 1988, che contrapponeva frontalmente i lavoratori dipendenti (gli onesti, appunto) ai lavoratori autonomi (i disonesti, dunque). Ora, io, da bravo “giovane disoccupato”, mi ero iscritto alle apposite liste di collocamento, mi ero visto offrire, e insieme, sconsigliare, un posto di venditore di pentole alla Upim (curiosamente diventata, poi, mia cliente per oltre un decennio). Mi ero quindi risolto, nel 1982, ad aprire una partita I.V.A. Avendo lavorato per enti pubblici e, in seguito, per grandi aziende, un centesimo mai era scappato al fisco (tranne qualche collaborazione con le Feste de l’Unità, dove il tesoriere di turno ti diceva: “questa è la cifra; vedi tu se vuoi fare la fattura”). A prendermi del disonesto dalla Cgil non ci stavo.
    Il secondo episodio fu l’elezione di Achille Occhetto alla segreteria del Pci, che mi parve il prevalere di un sinistrismo velleitario e generico (senza nemmeno le qualche grandezze ingraiane). Il giudizio mi sembrò confermato dalla svolta della Bolognina, dove si aprì un dibattito sul nome del partito, invece di parlare di tutto il resto.
     
    Per il resto, mi ritrovo molto nell’articolo di Daniele Marini: l’uscita dall’indigenza di buona parte del terzo mondo (altro che Piketty), con qualche conseguenza per il welfare di noi, terzomondisti d’altri tempi; l’irreversibilità della globalizzazione che non piace a molti internazionalisti; il rifiuto della decrescita felice, malgrado mi stia accingendo a sperimentare la vita in campagna; il ritenere un’occasione perduta il rifiuto “a prori” del nucleare. Aggiungerei, una certa capacità di contenere le crisi locali, in modo da evitare che si convertano in conflitti globali. E il fatto che il grande progresso, sì, progresso economico e sociale su scala mondiale, cui abbiamo assistito negli anni ’80 e ’90 sono stati a trazione liberale e liberista. Non si può che prenderne atto.
    Ci sono storture da correggere? Sono sotto gli occhi di tutti e siamo qui per questo.
    Ma non è un caso che il grande conflitto, oggi, sia tra apertura e chiusura, tra europeismo e nazionalismo, tra sviluppo e declino. E che attraversi abbondantemente tutti gli schieramenti.
     
     

  2. Nicola Polverino scrive:

    Hai ragione, il problema è anche se non soprattutto questo.
    Sto leggendo con molto interesse tutti gli interventi in merito.
    Da giovane pur essendo sempre stato a sinistra non ritenni mai valido quel progetto; ancora oggi ho interesse a conoscere le ragioni per le quali miei coetanei invece vi aderirono con passione

  3. Lorenzo Baldi scrive:

    Devo dire che il saggio di Fortini postato a commento dell'articolo di Alvaro Ricotti, come esempio di mossa convenzionalistica mi sembra un caso di scuola.

  4. Enzo Biassoni scrive:

    Abbiamo vissuto un grande periodo di cambiamento.
    Ad un certo punto (circa 1973) abbiamo pensato he servisse una forma partito per dare corpo alla nostra idea di cambiamento.
    L'ideologia ha cementato le nostre culture e diversità impedendo un moto unitario. Abbiamo scimmiottato l'esperienza di altre forme Partito ignorandone la Storia del loro radicamento, ampliandone i miti (la resistenza tradita) ed ignorando le complessità.
    I soldi per esempio, che avrebbero permesso maggiore radicamento. Ma soprattutto i modelli. Per esempio i movimenti dell"est ignorati mentre Urss e Maoismo offrivano. già modelli usurati.
    Potevamo pensare al crollo del Comunismo? Forse si. Ad un ecologismo non militante? Alla crescita dell'Europa?
    Il discorso di Claudio ci porta ad una profonda riflessione sui miti che ancora ci portiamo dentro, irrisolti al momento della scissione che portò MLS ad unirsi col Pdup.
    Milano la grande capitale d’Italia produsse il grande movimento culturale degli anni 70, al quale non sapemmmo dare un carattere generale unitario. Ed in realtà si sarebbe potuto superare le ideologie di Gruppo.
    Un parziale tentativo venne fatto con gli 8 referendum, appoggiando i radicali su temi che riguardavano la modernizzazione del Paese. Per compiere passi significativi avremmo dovuto abbattere le ideologie di gruppo e i luoghi comuni che ci portavano dentro.
    Claudio cita, tra molte cose, gli Stati uniti d’Europa. Questo accompagnato da una riflessione sui movimenti dell’est sarebbe stato un grande pensiero potenzialmente unificante

Lascia un Commento

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

*


quattro + = 8

È possibile utilizzare questi tag ed attributi XHTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <strike> <strong>