La democrazia malata e il SI’ come placebo – di Giovanni Cominelli

E’quanto meno dubbio che, se la democrazia italiana è malata, la vittoria eventuale del SI possa costituire la prima tappa della sua guarigione. Come già fatto notare su queste pagine e da molti altri su altre pagine, le riforme di un sistema complesso non si possono fare tutte in un solo giorno; vanno anch’esse per tappe… Ma si deve anche sapere dove si trova il traguardo. Il “SÌ riformista” dispone soltanto di un meta-traguardo. Spera, cioè, che compiuta la prima tappa – quella della riduzione del numero dei parlamentari – fatalmente si debba procedere o, comunque sia più facile farlo, verso una seconda tappa. Ma qui è facile obbiettare che ci troviamo in pieno pensiero desiderante con il quale né si fanno riforme né si stabiliscono traguardi. Quanto all’intero schieramento del SÌ, ha almeno due traguardi reciprocamente contraddittori: riformista e populista. Il NO, a sua volta variegato, ha una piattaforma più semplice: intende conservare l’attuale struttura della rappresentanza. Chi vota NO, lo fa perché la riforma proposta gli appare o inutile o dannosa.

Premesso che voterò NO – convinto più dell’inutilità che del danno della “riforma”  –  ciò che “non torna” dell’intero dibattito in corso tra il SÌ e il NO è la sopravvalutazione della dimensione della rappresentanza. Come se le fortune della democrazia dipendessero principalmente dalla quantità e dalla qualità della rappresentanza. Così il “SÌ riformista” chiede la riduzione dei numeri per migliorarne la qualità. Il NO è contrario alla riduzione, perché la peggiorerebbe. Quanto alla quantità, per compensarne la diminuzione, si prospetta il ritorno alla proporzionale, che ha il pregio di rispecchiare più minutamente gli orientamenti degli elettori. Secondo il SÌ, meno deputati, ma più rappresentativi. La legge elettorale è chiamata a completare, di fatto, una legge costituzionale. Diversamente che nel dibattito referendario del 2016, è totalmente assente l’altra dimensione della democrazia: il governo.

La democrazia italiana è stata esposta a ondate populiste dagli anni ’80, diventate più alte e violente nell’ultimo decennio recente. È accaduto in tutti i Paesi dell’Euro-occidente. Perché in Italia, a differenza di altri Paesi, il sistema politico tradizionale è stato sopraffatto e il populismo/sovranismo antieuropeo è andato al governo, con l’intenzione per niente affatto occultata di sostituire le strutture e le pratiche della democrazia rappresentativa classica, con la democrazia diretta, con abolizione plebiscitaria della casta, cioè dell’intermediazione socio-politica dei partiti? Perché una successione infinita di governi deboli, instabili, brevi, conflittuali – sessantasei governi dal 1946 al 2019 – non è stata in grado di risolvere nessuno dei problemi strutturali del Paese, l’elenco dei quali ci ripetiamo ogni giorno: sviluppo economico, Mezzogiorno, burocrazia, amministrazione statale, giustizia, scuola, gestione del territorio… Eppure la rappresentanza è sempre stata abbondante e mediamente assai più qualificata di quella di adesso.

Nessuna “democrazia non-governante” può reggere alla lunga, se urta contro gli scogli internazionali delle crisi finanziarie, economiche e geopolitiche. La nostra “democrazia non governante” è stata progettata dal 1946 al 1948 nell’Assemblea costituente. Le ragioni geopolitiche di quel progetto sono arcinote: la caduta del Muro del 1989 le ha messe in chiaro. L’architrave del sistema istituzionale era il sistema dei partiti politici. I partiti decidevano/decidono la composizione del Parlamento e del governo. Il nocciolo duro del potere erano/sono i partiti. Il segreto della breve durata dei governi e, perciò, della loro inefficienza/inefficacia è presto svelato: è la centralità istituzionale dei partiti, dei quali Parlamento e Governo sono solo delle dépendance.

Al di sotto delle variazioni accidentali delle figure dei Presidenti del Consiglio e dei Ministri, la continuità effettiva del potere era/è rappresentata dai partiti. Dopo l’esaurimento del centrismo, dopo la fine del centro-sinistra, dopo il fallimento dell’unità nazionale, fu chiaro, dall’inizio degli anni ’80, che la partitocrazia non era più in grado di governare il Paese. Fu Craxi a percepirlo con maggiore nettezza. L’idea della governabilità e le proposte di Grande riforma segnalavano questa presa di coscienza: che occorreva fare un salto di cultura politica e di assetto istituzionale, nel quale le sacrosante esigenze della rappresentanza fossero equilibrate con le necessità interne e internazionali di un governo stabile, duraturo, forte. Fu contrastata duramente dalla Dc e dal PCI con gli argomenti di sempre: che la democrazia era rappresentanza e che il sistema partitocratico coincideva con la democrazia. Guai a toccarlo.

E fu così che, dopo il 1989, fu travolto da Mani pulite, dal leghismo, dal movimento referendario. Il barlume di riformismo istituzionale che illuminò la Commissione bicamerale del 1997-98, presieduta da Massimo D’Alema, si spense ben presto, per responsabilità di Berlusconi, della sinistra radicale e della tiepidezza riformistica del PCI-PDS. Da allora in avanti i partiti o quel che ne restava/resta hanno sempre discusso solo di leggi elettorali, non di leggi costituzionali che riguardassero l’istituzione-Governo, salvo il Titolo V e la proposta referendaria di Berlusconi del 2006.

Discutere solo di leggi elettorali presuppone che, di volta in volta, i partiti cerchino di costruire le condizioni più favorevoli per una propria presa stabile sull’istituzione-governo, nell’illusione di garantire così la stabilità dei governi. Alle spalle è sempre prevalente la preoccupazione esclusiva della rappresentanza e del suo controllo partitico. E più sono svuotati di cultura politica e di capacità di rappresentanza effettiva di interessi e di culture, più sono ridotti a scheletri di potere, tanto più si riducono a discutere di leggi elettorali.

Dopo l’ultimo slancio riformistico – quello del referendum del 2016 – l’involuzione contro-riformistica ha travolto tutti, a cominciare dal PD, che pure con Renzi aveva lanciato il progetto ambizioso di una governabilità stabile e forte. La proposta del ritorno alla proporzionale con voto alla lista di partito o alla proporzionale con preferenze personali ci riporta, in questo malinconico gioco dell’oca, alla casella di partenza degli albori della Prima intramontabile repubblica. Ecco perché l’esito del referendum, quale che sia, lascia sul tavolo irrisolte tutte le questioni istituzionali e costituzionali. Il merito del NO è solo questo, alla fine: dire, con cinico, ma necessario realismo, che il Re del SÌ è un nudo re di cartapesta.

Resta da osservare che l’involuzione/svuotamento/distruzione dei partiti e, in particolare, la dispersione di un enorme patrimonio storico di classe dirigente, di competenze, di saperi sociali non è il prodotto di una degenerazione morale della casta né di un complotto di poteri forti internazionali, così che basterebbe togliere di mezzo la casta con la democrazia diretta o rinchiudersi in una qualche ridotta valtellinese nazional-sovranista per ricostruire la politica, le istituzioni e un governo degno di tale nome.

Chi legga la storia socio-politica dei regimi politici dell’Ottocento/Novecento e oltre deve registrare una corrispondenza biunivoca tra il mutamento dei sistemi di comunicazione (dalle gazzette, al telegrafo, al telefono, alla radio, alla Tv, a Internet, ai social-media…) e la metamorfosi profonda di vecchi partiti, l’insorgenza di nuovi partiti e di nuove culture politiche. L’avvento in successione delle Tv private, dei cellulari, di Internet, dei social media ha rivoluzionato, in primo luogo, le modalità di comunicazione tra le persone e il sapere, tra le persone tra loro, tra le persone e i poteri. E’ questa talpa che ha scavato sotto il rapporto tra società civile e partiti. Ma qui si deve proseguire con un’altra narrazione, con un’altra storia…

Info su Giovanni Cominelli

Giovanni Cominelli, iscritto a Filosofia all’Università Cattolica di Milano dal 1963 al 1965, alla Frei Universität nel 1965/66, laureato in filosofia con Enzo Paci all’Università statale di Milano nel marzo del 1968. Negli anni ’70 é stato membro della Segreteria nazionale del Movimento studentesco/Movimento lavoratori per il Socialismo. Eletto nel 1980 in Consiglio comunale a Milano per l’MLS-PDUP nel 1980, nel 1981 è subentrato come Consigliere regionale a Luciana Castellina, fino al 1990. Nel novembre del 1982 è entrato nel PCI, su posizioni riformiste e miglioriste. E’ uscito dal PCI-PDS nel 2000, aderendo ai Radicali fino al 2004. Iscritto al PD dal 2015. Esperto di politiche scolastiche, dal 1985 al 2000 responsabile scuola del Pci-Pds-Ds in Lombardia e membro della Commissione nazionale scuola. Membro del Gruppo di lavoro per la Valutazione, istituito nel 2001 dal ministro Moratti, fino al 2004. Dal 2002 al 2004 membro del Comitato tecnico scientifico dell’Invalsi, poi consulente per la comunicazione fino al 2005. Dal 2003 al 2005 ha organizzato la manifestazione Job&Orienta della Fiera di Verona dedicata all’istruzione. Membro del Cda dell’Indire dal 2005 al 2006, è stato responsabile delle politiche educative della Compagnia delle Opere dal 2005 al 2007 e della Fondazione per la Sussidiarietà fino al luglio 2010. Ricercatore presso il Cisem nel 2010. Svolge attività di formazione nelle scuole. Collabora alla Rivista mensile Nuova secondaria. Ha scritto di politiche educative su Il Riformista, Tempi, Il Foglio, Avvenire, Il Sole 24 Ore e i libri La caduta del vento leggero (2007) e La scuola è finita… forse (2009). Oggi editorialista de L’ECO DI BERGAMO e di santalessandro.org, settimanale della Diocesi di Bergamo. Scrive sul Sussidiario.
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