Fratelli nella Repubblica – di Giovanni Cominelli

Era stato facile prevedere che la formazione del governo “senza aggettivi”, guidato da Mario Draghi, avrebbe scombinato i tranquilli giochi interni di ciascun partito e le relazioni tra di loro. Essendo ormai abituati a recarsi là dove i sondaggi li chiamano, hanno scoperto che i famosi “Italiani”, a nome dei quali ciascun partito straparla nei TG, li stavano portando al seguito di Draghi. E perciò si sono messi faticosamente in movimento con salmerie e cariaggi. Non senza resistenze e pigrizie, tutte naturalmente a difesa delle “nostre idee” e della “nostra identità”, confuse e contraddittorie essendo le prime e labile la seconda.

In realtà un’aggettivazione Draghi l’ha proposta: governo “repubblicano”. E tutt’altro che tautologica. “Repubblicano” indica una base peculiare di etica pubblica: Libertè, égalité, fraternité. L’uso dell’aggettivo “repubblicano” traccia un binario di identità e di cultura politica, dentro il quale i partiti sono invitati a cambiare e camminare. Intanto, nelle loro relazioni reciproche. Se i partiti accettano la “liberté” e l’ ”égalité”, però tendono a negare all’altro l’acquisizione di questi valori. Il fatto è che non praticano il terzo, che è la base di ogni comunità: la “fraternité”. 

Con la caduta della Prima repubblica nel 1994 si è dissolta anche la fraternità che le stava a fondamento, sostituita dal reciproco assedio dell’odio. La destra ha accusato la sinistra di “comunismo”, accusa tanto più paradossale quanto più il comunismo veniva consegnato alle macerie della storia; la sinistra ha accusato la destra di eversione e di immoralità pubblica e privata, di fascismo e di razzismo. Nessuno riconosce all’altro la piena legittimità repubblicana, l’altro è considerato inquilino abusivo della Repubblica.

Come se, sotto la superficie della Repubblica, continuasse a scorrere il magma di una guerra civile di lunga durata. Più ancora che le inerzie antropologiche della storia nazionale, è questa guerra civile strisciante che spiega perché non si riesca a costruire una statualità repubblicana solida e, pertanto, ad accordarsi su nuove o rinnovate istituzioni politiche ed amministrative all’altezza delle sfide del presente e, pertanto, non si riesca a governare seriamente. Eppure, senza la fratellanza repubblicana, la Repubblica non si costituisce. E perciò la politica diventa una logorante guerra di posizione e di trincea, in cui si avanza o si arretra di poche centinaia di metri. Non ci sono più i caduti a migliaia del Carso, ma cade fatalmente il Paese.

Il mancato riconoscimento dell’altro porta la sinistra e la destra nazionalista – assai meno quella liberale – ad un’autoinvestitura soteriologica: o con me o la barbarie, o con me o la catastrofe. La politica diviene la rincorsa compulsiva all’accumulazione del consenso in vista di alternative radicali o di “pieni poteri”. Perciò la soluzione dei problemi del presente viene rinviata a quando si sarà costruito un monoblocco politico del 51%. Mentre la politica fa tintinnare le spade nel duello infinito, il Paese langue e si arrangia, di corporazione in corporazione.

Ora il Covid-19 ha posto bruscamente fine alla guerra delle parole, ha costretto ad un’educazione rapida ad un nuovo repubblicanesimo. Di qui le resistenze e le fatiche dei partiti. Hanno fin qui raccolto “consenso contro” e, su questa base, hanno scelto i gruppi dirigenti e il leader, hanno costruito filosofie politiche e strutture di comunicazione, ispirate ad una cultura dell’odio e della distruzione morale dell’avversario. Hanno affilato le lame della proprie identità. Ora devono cambiare. Ciò che si impone loro è una rivoluzione culturale liberale.

“Liberale” non allude a policy specifiche di politica economica o del Welfare, più o meno liberiste. Qui indica uno sguardo sulla società, sull’individuo, sulla storia, che sia caratterizzato dal senso del limite, dal riconoscimento dell’altro, dall’idea della fallibilità e della provvisorietà dei punti di vista, sempre aperti alla falsificazione dei propri presupposti. Uno sguardo laico, che non intenda mai porsi dal punto di vista dell’Assoluto nel giudicare le cose del mondo, della politica e della vita.  Nessuno può credere di salvarsi da solo né, tampoco, di essere salvatore dell’altro.

Da questo sguardo potrà derivare un nuovo principio di realtà, di verità e di competenza. Dopo aver gonfiato e fatto esplodere le parole, al fine di un consenso artificioso e perciò instabile ed emotivo, è l’ora della sobrietà della verità. La fuoriuscita dal populismo è avviata.

L’idea di costruire all’interno della larga maggioranza di governo due poli reciprocamente alternativi va in direzione di un tale cambiamento culturale?
Al momento, la mossa dell’intergruppo M5S-PD-LEU, nata all’interno dell’ex-maggioranza giallo-rossa, sembra guardare nostalgicamente all’indietro. La Meloni l’ha proposta a sua volta per il centro-destra, fortunatamente trovando resistenze in Forza Italia. La prospettiva di un nuovo bipolarismo, analogo a quello che ha dato inizio alla Seconda repubblica, è certamente più avanzata rispetto a quella di una frammentazione proporzionalistica, verso cui spinge contraddittoriamente il PD.

Se vuoi il bipolarismo, non puoi vooere una legge elettorale proporzionale. Questa volta, però, la costruzione del bi/tripolarismo, che è tipico di quasi tutti i Paesi europei, per essere produttiva di riforme per il Paese, dovrebbe avvenire dentro il perimetro dei tre valori repubblicani. All’ombra della Grosse Koalition del governo Draghi, si potranno ridefinire identità e linee programmatiche, ma, diversamente che nel 1994, dentro l’alveo comune della fraternità repubblicana. Dissipare l’odio, la violenza verbale, l’esclusione dell’altro in quanto altro è la condizione per costruire. Buonismo moralistico, prediche inutili? E’ solo l’appello al principio di realtà. La delegittimazione reciproca indebolisce l’Italia nell’area internazionale. Cioè, ciascuno di noi come singoli, come famiglie, come imprese.

 

Info su Giovanni Cominelli

Giovanni Cominelli, iscritto a Filosofia all’Università Cattolica di Milano dal 1963 al 1965, alla Frei Universität nel 1965/66, laureato in filosofia con Enzo Paci all’Università statale di Milano nel marzo del 1968. Negli anni ’70 é stato membro della Segreteria nazionale del Movimento studentesco/Movimento lavoratori per il Socialismo. Eletto nel 1980 in Consiglio comunale a Milano per l’MLS-PDUP nel 1980, nel 1981 è subentrato come Consigliere regionale a Luciana Castellina, fino al 1990. Nel novembre del 1982 è entrato nel PCI, su posizioni riformiste e miglioriste. E’ uscito dal PCI-PDS nel 2000, aderendo ai Radicali fino al 2004. Iscritto al PD dal 2015. Esperto di politiche scolastiche, dal 1985 al 2000 responsabile scuola del Pci-Pds-Ds in Lombardia e membro della Commissione nazionale scuola. Membro del Gruppo di lavoro per la Valutazione, istituito nel 2001 dal ministro Moratti, fino al 2004. Dal 2002 al 2004 membro del Comitato tecnico scientifico dell’Invalsi, poi consulente per la comunicazione fino al 2005. Dal 2003 al 2005 ha organizzato la manifestazione Job&Orienta della Fiera di Verona dedicata all’istruzione. Membro del Cda dell’Indire dal 2005 al 2006, è stato responsabile delle politiche educative della Compagnia delle Opere dal 2005 al 2007 e della Fondazione per la Sussidiarietà fino al luglio 2010. Ricercatore presso il Cisem nel 2010. Svolge attività di formazione nelle scuole. Collabora alla Rivista mensile Nuova secondaria. Ha scritto di politiche educative su Il Riformista, Tempi, Il Foglio, Avvenire, Il Sole 24 Ore e i libri La caduta del vento leggero (2007) e La scuola è finita… forse (2009). Oggi editorialista de L’ECO DI BERGAMO e di santalessandro.org, settimanale della Diocesi di Bergamo. Scrive sul Sussidiario.
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