I nodi, il pettine nella testa di un rasta – di Giovanni Cominelli

Il governo-Draghi non è un governo tecnico, non è un governo partitico, è un governo presidenziale-istituzionale, cioè un governo totus politicus, anche se i ministri fossero tutti dei “tecnici”.

Il suo avvento sulla scena è destinato, pertanto, a produrre effetti politico-partitici in profondità sui partiti e sulle loro  eventuali alleanze.

Il primo effetto è la “discesa in campo” di Conte dal tavolino di Piazza Colonna, nel Dies Domini del 4 febbraio 2021. L’annuncio è solenne: Giuseppe Conte si è posto a capo della coalizione ex-governativa composta da M5S, PD, LEU e sconfitta da se stessa nel giro di un anno. E’ arrivato al tavolino dell’autoinvestitura, portando già la corona sulla testa, gentilmente offertagli da PD e LEU e, obtorto collo, dal M5S.

Nasce così ufficialmente il sinistro-populismo.

La gestazione è durata più di un anno. Già all’indomani delle elezioni del 4 marzo 2018 si era accesa una convulsa discussione dentro il PD: allearsi o no con il M5S per costituire una maggioranza di governo? Fu Matteo Renzi a sbarrare il passo. Lo stesso che un anno dopo, con ribaltone tattico, “costrinse” il PD all’alleanza con il M5S per impedire a  Salvini e alla sua band di risalire sul palco, da cui era sceso per uno sguaiato drink estivo. Solo che quello che doveva essere un valzer tattico di Renzi, mosso dalla speranza di piegare il M5S, esattamente come aveva fatto Salvini, si trasformò nel tango strategico dell’amebico Zingaretti.

Il fallimento dell’azione di contrasto della pandemia e dell’approntamento del PNRR, che è la causa evidente della crisi di governo, invece di spezzare il ballo argentino, ne ha accelerato il ritmo.

Che cosa sta accadendo al PD, che ha raccolto l’eredità della sinistra di matrice comunista e cattolica?

Il PD si è smarrito, semplicemente. Dal PCI aveva ereditato la cultura del lavoro e la base sociale dei lavoratori; dalla sinistra cristiano-sociale della DC l’attenzione al Welfare delle persone e degli ultimi e pezzi di società media. L’eredità marxiano-comunista aveva a fondamento l’idea della centralità dello sviluppo delle forze produttive e del lavoro creatore di valore – secondo una tradizione che risale a Adam Smith e a Marx -  come motori della civiltà umana e della liberazione degli individui da ogni forma di oppressione.

La classe operaia, di cui il PCI era la condensazione autocosciente “esterna”, chiamava ogni giorno, nelle fabbriche e nella società, i proprietari dei mezzi di produzione – la borghesia – alla sfida su chi fosse capace di sviluppare di più e meglio le forze produttive, su chi tenesse insieme sviluppo produttivo, liberazione umana, democrazia dei diritti e dei doveri. Il conflitto culturale e sociale era vivo e fecondo.

Il crollo del sistema degli stati comunisti ha fatto saltare lo schema marxiano. A questo punto il PCI-PDS-DS-PD si è perso. Ha smarrito il nocciolo razionale e “eterno” dell’eredità marxiana e comunista: che alla base di ogni sviluppo umano, di ogni civilizzazione stanno la produzione, il lavoro umano, la scienza, le tecnologie, l’intelligenza; che la politica e il conflitto consistono nell’aprire la strada a queste forze; che lo Stato politico e lo Stato amministrativo hanno lo scopo di creare le condizioni giuridiche e civili di quello sviluppo.

Abbandonata la riva dello sviluppo delle forze produttive, il partito post-comunista non ha neppure voluto prendere in considerazione l’esperienza socialdemocratica, che non si era limitata alla difesa e all’espansione del Welfare, ma aveva messo il naso, in vari modi, nelle scelte strategiche dei proprietari dei mezzi di produzione, cioè dei capitalisti.

L’approdo del PD è stato il’Welfare, cioè la difesa dei settori sociali più deboli da una globalizzazione pervasiva e spietata, che ha colpito il lavoro, i redditi medi, accentuato le diseguaglianze, soprattutto nei Paesi dell’Occidente storico e che, in Italia, ha allargato il fossato tra Nord e Sud. E ha difeso il pubblico impiego così com’è con la sua organizzazione del lavoro così com’é. E quello degli insegnanti così com’é. Un approdo puramente distributivo.

Su questa strada ha trovato dei competitor. La Lega di  Salvini è accorsa a difesa dei lavoratori delle piccole e medie imprese, degli artigiani, dei commercianti tanto al Nord quanto al Sud. Al Sud, la fine della DC aveva lasciato un vuoto, che il M5S ha rapidamente riempito. Sull’autostrada di un welfarismo assistenzialistico e distributivo, anche il PD si è diretto a Sud. L’alleanza strategica con il M5S è fondata su questa comune base socio-territoriale, dove si ritrova anche la sinistra sociale democristiana.

Per il PD il Nord è perduto o, peggio, Il Nord industriale ha mollato il PD. D’altronde, le grandi organizzazioni socio-sindacali – Confindustria, Confcommercio, Confartigianato, Confagricoltura, Sindacati…- a loro volta hanno abbandonato da tempo le questioni dello sviluppo. Tutti chiedono protezione. Inevitabile che la confezione del PNRR, ad opera di Gualtieri, Amendola e Provenzano, finisse per diventare la tavola dei sogni di distribuzione del denaro europeo. Di qui la difesa che Carlo Bonomi, presidente di Confindustria, ha fatto del Ministro Gualtieri, nella prospettiva di un Conte-ter. Perciò il Paese è scivolato sul declivio ripido del declino.

Così, dunque, finita la fase del populismo filo-trumpiano di Conte, si apre ora ufficialmente quella del sinistro-populismo – sempre leader Conte – nel quale confluiscono i detriti di antiche storie della politica della Prima repubblica, come fa opportunamente notare lo storico Alberto De Bernardi. Con ciò il PD si è infilato nel tunnel già percorso dal Partito Socialista Francese…

La consunzione ideologica di un partito-pilastro del sistema politico-istituzionale della Repubblica – che, avendo incominciato a fare battaglia contro il populismo di destra, si trova oggi, a sua volta, sulla sponda del populismo di sinistra –, contribuisce alla crisi del sistema politico-istituzionale, della quale il ricorso al governo presidenziale segna il limite estremo. Oltre c’è l’implosione.

“Il tempo di Draghi” dischiude davanti alla politica, davanti alla sinistra e destra e, comunque, davanti ai singoli partiti, una fase di autoriflessione, di bilanci, di scomposizione, di conflitti ideologici.

Non ci sarà nessuna “gran bonaccia delle Antille” nel prossimo periodo. Ma, forse, all’ombra provvidenziale del governo Draghi, potrà arrivare il tempo della costituzione di una sinistra e di una destra liberali, federaliste, europeiste, reciprocamente avversarie, ma non nemiche, dedicate alla missione politica per eccellenza, quella dell’institution building, della costruzione di un nuovo Stato politico e di un nuovo Stato amministrativo, di una nuova giustizia civile e penale che favoriscano lo sviluppo produttivo e civile del Paese e lo sviluppo umano dei suoi cittadini.

Oggi questo sistema obsoleto dei partiti e questo Stato-paralisi si tengono l’un l’altro. Ma  il Paese non tiene più.

Info su Giovanni Cominelli

Giovanni Cominelli, iscritto a Filosofia all’Università Cattolica di Milano dal 1963 al 1965, alla Frei Universität nel 1965/66, laureato in filosofia con Enzo Paci all’Università statale di Milano nel marzo del 1968. Negli anni ’70 é stato membro della Segreteria nazionale del Movimento studentesco/Movimento lavoratori per il Socialismo. Eletto nel 1980 in Consiglio comunale a Milano per l’MLS-PDUP nel 1980, nel 1981 è subentrato come Consigliere regionale a Luciana Castellina, fino al 1990. Nel novembre del 1982 è entrato nel PCI, su posizioni riformiste e miglioriste. E’ uscito dal PCI-PDS nel 2000, aderendo ai Radicali fino al 2004. Iscritto al PD dal 2015. Esperto di politiche scolastiche, dal 1985 al 2000 responsabile scuola del Pci-Pds-Ds in Lombardia e membro della Commissione nazionale scuola. Membro del Gruppo di lavoro per la Valutazione, istituito nel 2001 dal ministro Moratti, fino al 2004. Dal 2002 al 2004 membro del Comitato tecnico scientifico dell’Invalsi, poi consulente per la comunicazione fino al 2005. Dal 2003 al 2005 ha organizzato la manifestazione Job&Orienta della Fiera di Verona dedicata all’istruzione. Membro del Cda dell’Indire dal 2005 al 2006, è stato responsabile delle politiche educative della Compagnia delle Opere dal 2005 al 2007 e della Fondazione per la Sussidiarietà fino al luglio 2010. Ricercatore presso il Cisem nel 2010. Svolge attività di formazione nelle scuole. Collabora alla Rivista mensile Nuova secondaria. Ha scritto di politiche educative su Il Riformista, Tempi, Il Foglio, Avvenire, Il Sole 24 Ore e i libri La caduta del vento leggero (2007) e La scuola è finita… forse (2009). Oggi editorialista de L’ECO DI BERGAMO e di santalessandro.org, settimanale della Diocesi di Bergamo. Scrive sul Sussidiario.
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6 risposte a I nodi, il pettine nella testa di un rasta – di Giovanni Cominelli

  1. Bruno Petrucci scrive:

    Caro Cominelli, ti ringrazio per i contributi che dai al dibattito sulla sinistra, mai scontati e che, anche se non condivido in toto, hanno sempre il merito di farmi riflettere. Dell'ultimo condivido molto, tranne forse la tua speranza conclusiva che la soluzione sia in un partito alla Macron, liberal, antipopulista ed europeista che includa tutti i cespuglietti oggi sparpagliati al centro dello schieramento politico. Ho dei grandi dubbi, in primis sul fatto che riescano a superare i personalismi che ne fanno delle Cassandre inascoltate, ognuno rinchiuso nel suo 1-2.5%, in secondo luogo sul fatto che un tale partito possa richiamare una base di massa su posizioni che sono, come dire, leggermente aristocratiche. Se bisogna superare il populismo, non si può fare a meno del favore del popolo. Nelle ultime elezioni americane la sinistra ha vinto soprattutto per come la destra Trumpiana ha fatto riscoprire quello che realmente di democratico c'è nelle coscienze e poi per la capacità di raccogliere tutto il mondo progressista dagli estremisti di ogni tipo alla sinistra moderata, liberal, sotto l'egemonia di quest'ultima. Mi ha sempre stupito come in ogni tornata elettorale Bernie raccolga grandissimi consensi per poi fare alla fine il passo indietro e cedere l'onore della guida ai moderati. Hai ragione in una cosa: a sinistra si odia troppo, in entrambe le direzioni. Io non riesco ad odiare neppure i 5S e sono loro oggi a raccogliere i voti di chi si sente escluso. Senza quel consenso, il tuo partito di liberal ed europeisti corre il rischio di rimanere una galassia di intellettuali con un orientamento comune, ma disperso nello spazio intergalattico.

    • Giovanni Cominelli scrive:

      il partito di Macron è un partito di sinistra liberale. Averne! Ha vinto le elezioni e mi pare che vincerà anche le prossime, finché i suoi competitor saranno la Le Pen e Malenchon. Ovvio che bisogni avere i voti del popolo, in democrazia. Non perciò bisogna allearsi con i populisti, come continua a pensare di fare Zingaretti. De Gasperi e Togliatti i populisti li hanno distrutti. Senza odio. Occorre una proposta e un'azione di governo, che faccia i conti con i vincoli e punti sullo sviluppo.

  2. Giovanni Cominelli scrive:

    Mi sono fatto questa idea: che il problema principale della sinistra sia la SINDROME DELL'ODIO. E' cominciata con Craxi, poi con Berlusconi, poi con Salvini, poi con Renzi. E continua contro gli ultimi tre, solo perché Craxi é morto. Ma é odiato anche da morto. Mi piacerebbe che qualcuno, assai più esperto di me in psico-politica, ci ragionasse sopra. Perché noi di sinistra odiamo?!

    • Raffaele Iosa scrive:

      La domanda di Cominelli é molto complessa. Penso (penso) che l"odio nasce dell'idolatria del sé Narciso travolto da una fede immanente e fortissima che é al declino e dunque si rafforza se c'è un nemico cui abbeverarsi per sedare le proprie insicurezze. Il nemico rafforza la nostalgia del Giusto sè cui si desidera tornare. Mi ricorda Abelardo che si castra o il fobico che gode nel lavarsi contnuamente. Il comunismo é stato una potentissima droga. Penso che ai tempi di Togliatti fosse più semplice: la "doppiezza" dei comunisti (i due livelli di verità) permetteva un equilibrio anche psichico nella tattica. Con l'89 finisce tutto. Odiare è una cocaina purissima. Gasa

  3. Aldo Tropea scrive:

    In sostanza, chiedi la nascita di una nuova forza politica progressista aperta al futuro, non assistenzialista/ meridionalista. Ma posso timidamente chiedere fondata su cosa, visto che la grandissima maggioranza delle forze politiche è priva di disegno strategico e le rappresentanze sociali tutte, da quelle imprenditoriali a quelle sindacali, difendono il proprio "particolare" ?
    Io credo che la scelta di Conte di appoggiare Draghi sia stata certo obbligata ma anche saggia. Diverso il discorso per il PD, che sotto la direzione zingarettiana ha smesso di parlare di prospettive.
    Io credo che la presidenza di Draghi possa costituire un'occasione per riprendere un vero dibattito sui fondamenti delle scelte, ma a condizione di liberarsi dai pregiudizi.

    • Giovanni Cominelli scrive:

      Intanto c'é un nucleo, costituito da Calenda, Italia Viva, Bonino, Carfagna, Base Italia. E poi ci sono forze dentro il PD, che la manovra precipitosa di Renzi, a suo tempo, ha lasciato nel PD, dentro il quale peraltro sono state rigorosamente congelate da se stesse. Mi auguro che il Governo Draghi dia coraggio ai riformisti del PD. Zingaretti non ha la cultura politica all'altezza della situazione. Di qui in avanti comincerà a traballare. Conte può fare quello che vuole. E certo non é colpa sua se Zingaretti e Leu lo infliggano come leader.

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