auto elettriche (?) 1 – di Lorenzo Baldi

Quando un anglosassone parla di uno come me, lo definisce un “petrolhead”, in italiano testa di benzina. Sarà che sono nato a non grande distanza dallo stabilimento Fiat di Mirafiori, sarà che ho imparato a leggere Quattroruote quando frequentavo ancora l’asilo, la mania dei motori, a due e quattro ruote, non mi ha mai lasciato e ha consumato una parte dei miei risparmi.

Questo per dire che, per come sono fatto, la virata dell’industria automobilistica in direzione della propulsione elettrica, mi getta in uno stato di lutto, o, eventualmente, mi suggerisce una sorta di ribellismo à la Trump, ormai, per fortuna, un po’ démodé. All’idea dell’automobile come un giocattolo rotto, però, si affianca la constatazione di un percorso insieme tecnologico e umano che, se pensiamo al ruolo centrale dell’automobile nella cultura industriale, prepara un cambiamento di grandi proporzioni nella nostra società.

Motori termici sempre più complessi

Si può condividere in misura totale, o affrontare con qualche scetticismo, il tema dell’origine antropica del riscaldamento globale, tuttavia la riduzione delle emissioni di CO2 è diventato un obiettivo condiviso in tutto il mondo, anche nei paesi di recente sviluppo industriale; ed è incontrovertibile che la qualità dell’aria delle grandi città e di grandi aree come l’intera pianura padana sia pessima, in buona parte a causa delle emissioni dovute alla mobilità.

Il contrasto all’inquinamento dell’aria dovuto ai motori a scoppio ha una storia trentennale, a partire dal 1993, anno in cui la Comunità Europea ha imposto l’impiego del convertitore catalitico nei sistemi di scarico degli autoveicoli con la norma Euro 1 (e da 10 anni prima per quanto riguarda il mercato U.S.A.). Da allora, possiamo leggere l’evoluzione della tecnica motoristica soprattutto in termini di mantenimento della prestazione, in presenza di normative ambientali sempre più stringenti.

La strada maestra è stata quella del miglioramento della combustione, abbinata all’impiego di dispositivi di abbattimento degli inquinanti nel sistema di scarico. Ne è derivata una crescente complicazione meccanica ed elettronica, della quale vale la pena ripercorrere le tappe.

Per quanto riguarda la combustione, l’iniezione, a partire dal 1989, ha sostituito completamente i carburatori: dall’iniezione indiretta si è passati all’iniezione diretta e multi getto, con pressioni del carburante sempre più elevate. Nello stesso periodo sono stati sviluppati sistemi di fasatura variabile delle valvole sempre più complicati e sofisticati, dal VTEC della giapponese Honda, passando per il Porsche Vario Cam, il Vanos/Valvetronic di BMW, per arrivare al Fiat Multi Air, un esempio di brillante ingegneria italiana.

Con la seconda serie della Nissan Micra, già nel 1992, i motori a 4 valvole per cilindro sono presenti anche nel segmento delle auto di piccola cilindrata. Nel 1997 il Gruppo Fiat, qualificandosi come grande protagonista dell’innovazione motoristica, ha montato, per la prima volta sull’Alfa Romeo 156 JTD, un motore diesel common-rail, con iniezione ad alta pressione, dando il via alla stagione dei motori diesel con basso consumo ed elevata guidabilità e prestazione.

Dalla seconda metà degli anni 2000 si è assistito ad una riduzione generalizzata della cilindrata dei motori (downsizing), sostituiti da unità più piccole e con potenza specifica superiore agli 80 Kw per litro di cilindrata, ottenuta attraverso il turbocompressore. Queste tecnologie sono ormai diffuse, con poche eccezioni, su quasi tutti i modelli dei diversi segmenti di mercato, dalla city car alla supersportiva.

Altre soluzioni, ancora più complesse, sono in corso di sviluppo o iniziale implementazione: ad esempio, motori con rapporto di compressione variabile (Infiniti VC-T), motori a benzina HCCI (Homogeneous Charge Compression Ignition) che accendono la miscela aria/benzina per compressione, come i Diesel (è già in commercio il Mazda Skyactiv –X); sistemi di distribuzione a controllo elettronico e comando elettromagnetico, la cui fasatura è controllabile in ogni istante, indipendentemente dalla rotazione dell’albero motore; turbocompressori ibridi (Mercedes), in grado di recuperare energia con un alternatore/motore elettrico che riduce drasticamente anche il tempo di risposta, come nelle attuali auto da competizione di F1.

Per quanto riguarda i sistemi che ripuliscono le emissioni del motore endotermico, ai convertitori catalitici (che hanno continuato ad evolversi) si sono aggiunti i filtri antiparticolato ed i sistemi di riduzione degli ossidi di azoto che, in molti casi, richiedono all’utente anche la gestione del rifornimento di un serbatoio di urea.

Il “rasoio” dell’ingegnere.

Il motore endotermico è una macchina con efficienza relativamente bassa per ragioni legate al II principio della termodinamica individuate ed analizzate già nel corso dell'800. Il rendimento non supera il 40% e raggiunge un picco del 55% negli attuali motori di F1, dotati di complessi sistemi elettrici destinati al recupero di energia. In termini di efficienza, grandi investimenti tecnologici producono quindi miglioramenti significativi ma non sostanziali.

La coperta si rivela anche piuttosto corta: nei motori diesel, per esempio, l’impiego di miscele magre per aumentare l’efficienza energetica eleva la produzione di ossidi di azoto; gli stessi motori diesel sono, in realtà, più efficienti degli equivalenti a benzina (e quindi più puliti in termini di CO2), ma producono PM10 e NOX in quantità elevate.

In questo contesto, la propulsione elettrica si presenta come il rasoio di Ockham: “Frustra fit per plura quod potest fieri per pauciora” (è futile fare con più mezzi ciò che si può fare con meno); ovvero  “Entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem" ("Non si moltiplicano gli enti se non vi è necessità di farlo").

Da un lato, migliorando l’efficienza, l’elettrico riduce comunque la produzione di CO2, indipendentemente dal modo di generare energia elettrica, e migliora la qualità dell’aria nei microambienti urbani più trafficati; dall’altro, semplifica drasticamente il veicolo, fino al punto in cui si temono importanti riduzioni occupazionali nel settore dell’assemblaggio e della componentistica.

Si tratta, anche, di una specie di ritorno al futuro: le prime notizie di elettromobili risalgono agli anni ’30 del XIX secolo. Negli ultimi anni di quel secolo, piccole flotte di taxi elettrificati circolavano a Londra e a New York. Nel 1899, in Francia, un veicolo elettrico (la Jamais contente) superò per la prima volta i 100 km/h. Questi tentativi si infransero davanti allo stesso ostacolo che, ancor oggi, l’elettrificazione della mobilità individuale si trova a fronteggiare: l’autonomia.

La propulsione elettrica, in sé, è dunque una tecnologia matura e gli stessi sistemi elettronici di controllo del motore sono stati sviluppati ormai lungo qualche diecina d’anni. Essa permette di recuperare energia in frenata e facilita enormemente il controllo del veicolo da parte dei sistemi di guida autonoma, mentre consente di disegnare chassis semplificati e modulari, collocando il peso delle batterie in basso, le ruote ai quattro angoli, senza sbalzi longitudinali, con vantaggi considerevoli in termini di abitabilità e vano di carico. I costi di manutenzione sono ridotti perché, di regola, non esistono né il cambio di velocità, né la lubrificazione del motore ed i freni sono molto meno sollecitati grazie al freno motore impiegato per il recupero di energia.

A prescindere dalle questioni ambientali, la propulsione elettrica è comunque credibile e, per certi versi, necessaria per aprire un nuovo ciclo industriale, riguadagnando una profittabilità che l’estrema complicazione dei veicoli endotermici ha relegato nelle fasce medio-alte del mercato e in presenza di brand molto forti sul mercato.

Ciò che, invece, appare piuttosto irrazionale e, comunque, con un valore transitorio, sembra essere la propulsione ibrida. Se consideriamo lo schema full-hybrid Toyota (che per prima ha implementato questa soluzione), il motore elettrico si presenta esclusivamente come un sistema di  recupero dell’energia in frenata, a fronte di una discreta semplificazione del motore a scoppio (un ciclo Atkinson aspirato, molto basico e abbastanza efficiente), e della trasmissione (un sistema di ingranaggi planetari).

Il cosiddetto ibrido plug-in è costituito da un sistema di propulsione elettrico con bassa autonomia (di norma 30-50 km) abbinato, con un significativo aumento di peso, ad un sistema endotermico di ultima generazione (con cambio automatico a doppia frizione); si configura così un insieme di organi meccanici ed elettrici molto complesso. Si è poi largamente diffuso il sistema mild hybrid, che consiste, solitamente, di un motore elettrico di piccola potenza che svolge insieme la funzione di avviamento, recupero di energia in frenata e aiuto al motore a scoppio nelle fasi di partenza da fermo, consentendo guadagni emissivi nei cicli di omologazione europei.

Con l’ibrido, la riduzione delle emissioni è variabile a seconda dei percorsi (massima in città, minima lungo le autostrade) e, nel caso delle plug-in” le normative di test sono inadeguate e certificano emissioni che sono realistiche esclusivamente in una piccola parte dei casi d’uso reali.

La distribuzione dell’energia e l’ansia da autonomia.

L’ostacolo principale che si oppone all’elettrificazione della mobilità individuale è quello della distribuzione dell’energia. Due sono le opzioni disponibili.

Le batterie ricaricabili dalla rete elettrica, la cui tecnologia è in rapida evoluzione, comportano diversi problemi di sostenibilità ambientale (in termini di peso, e quindi di minore efficienza del sistema veicolo, di costi energetici per la produzione e, infine, di costi di smaltimento a fine vita) e di sostenibilità etica (in considerazione delle condizioni dell’approvvigionamento delle materie prime nei paesi del terzo mondo).

Il costruttore giapponese Mazda è noto per il proprio approccio innovativo ai problemi dell’ingegneria del veicolo: impiega motori aspirati di cilindrata generosa, invece dei piccoli turbocompressi oggi in voga, ha mantenuto sempre attiva la ricerca sui motori rotativi Wankel, porta molta attenzione alla riduzione di peso.

Per il suo primo modello elettrico, un SUV di medie dimensioni, ha deliberatamente scelto di limitare l’autonomia a 200 km, dichiarando che un’autonomia superiore avrebbe prodotto un impatto ambientale non accettabile nel ciclo completo di vita del prodotto. Una filosofia diametralmente opposta a quella di Tesla che ha fatto delle prestazioni e dell’autonomia elevata una bandiera, in vista dell’immediata usabilità dell’auto elettrica in qualunque contesto e della sua diretta concorrenzialità con i modelli a propulsione endotermica..

L’auto a batteria si scontra inoltre con le abitudini e gli stili di vita degli utenti: la ricerca di colonnine di ricarica e i tempi d’attesa non brevissimi, anche con i sistemi di ricarica rapida ad alto amperaggio, collidono con la fretta inseparabile dalla vita urbana contemporanea, scoraggiano l’utilizzo professionale del veicolo quando sono necessari spostamenti a lungo raggio, richiedono importanti lavori di elettrificazione delle autorimesse ed una diffusione capillare di centraline stradali in vista della ricarica notturna.

L’auto a batteria si ambienta molto bene, invece, nelle situazioni di pendolarismo: ville e villette a schiera, tipologie abitative diffuse nella parte esterna delle aree metropolitane, sono facilmente attrezzabili con sistemi di ricarica notturna e lo stesso vale per i posteggi aziendali.

La seconda possibilità per distribuire energia pulita è quella basata sull’idrogeno, impiegato per produrre energia elettrica a bordo dei veicoli con l’aiuto di celle a combustibile. Si tratta di un’altra tecnologia relativamente matura, se pensiamo che è stata utilizzata nel programma spaziale Gemini, a metà degli anni ’60 del secolo scorso.

L’idrogeno può essere ricavato dagli idrocarburi, con un rilascio di CO2 nell’atmosfera più o meno controllato (il c.d. idrogeno blu), o per elettrolisi a partire da energia rinnovabile (idrogeno verde). I costi del processo elettrolitico sono oggi significativamente più alti ma si attende una forte riduzione nel prossimo decennio. Sono necessari investimenti molto elevati per portare la produzione di idrogeno a volumi compatibili con l’utilizzo per autotrazione, in navi e aerei o nel riscaldamento.

Inoltre, la distribuzione e lo stoccaggio dell’idrogeno sono temi che comportano, con altri ingenti investimenti, seri problemi di sicurezza, sia sul territorio che a bordo dei veicoli. Si va decisamente verso un futuro all’idrogeno nel trasporto pesante, dove per i pesi, le potenze e le autonomie in gioco, le batterie non sono un’opzione praticabile.

Possiamo citare i progetti di Scania, Mercedes, Toyota-Hino e le strategie di importanti paesi come Germania e Francia. In questa prospettiva si dovrebbe creare un’infrastruttura di base per la distribuzione dell’idrogeno lungo le autostrade, suscettibile di essere estesa abbastanza facilmente ai veicoli leggeri. Tra gli investimenti “green” del Recovery Plan europeo post-pandemia, lo sviluppo della produzione e distribuzione di idrogeno troverà sicuramente un posto significativo e, qui in Italia, è recente la presentazione del piano industriale Snam fino al 2024, che “punta a essere tra i pionieri nell’utilizzo dell’idrogeno come vettore energetico pulito del futuro”.

La prospettiva dell’auto a idrogeno è, al momento, controversa: la sostengono costruttori come Bmw, Toyota e Hyundai (le due case orientali hanno già a listino un modello a testa, ma in Italia, al momento, possono rifornirsi solo a Bolzano), mentre Mercedes ha recentemente abbandonato il progetto di un’auto a fuel-cell e Honda, una delle prime case a muoversi in questa direzione, lo ha sospeso. Dal punto di vista dell’autonomia, l’esperienza d’uso dell’automobile azionata dall’idrogeno resta molto simile a quella dei carburanti fossili, con rifornimenti di pochi minuti presso stazioni di servizio. Mentre dal punto di vista della guida, è assimilabile a quella di un’auto elettrica a batterie. (1 – continua)


Nel prossimo articolo il panorama delle normative europee in termini di emissioni e la risposta delle case automobilistiche


Info su Lorenzo Baldi

Lorenzo Baldi, classe 1952, dopo aver parecchio studiato non si è mai laureato. Ha collaborato al “Quotidiano dei lavoratori” e al “Manifesto” e si è iscritto al Pci alla fine degli anni ’70. È stato consigliere comunale a Saronno (VA), fino al 1990, anno nel quale ha lasciato il partito e la politica attiva. Svolge la sua attività professionale nel campo della comunicazione ed ha creato dal 1982 una piccola società che si occupa di formazione e comunicazione interna per grandi aziende di servizi, soprattutto nell’ambito della distribuzione organizzata. Nel corso di questa attività ha accompagnato l’introduzione nelle aziende dei mezzi di comunicazione audiovisiva, attraversando tutte le fasi della produzione analogica e digitale e della distribuzione fisica e virtuale dei contenuti. Parallelamente, ha coltivato un interesse particolare per l’arte contemporanea che, dopo un lungo intermezzo che ha seguito le pubblicazioni e mostre degli anni ’80, lo ha portato a creare un progetto no-profit di documentazione video, rivolto al mondo dell’arte, attraverso il sito web videoforart.it
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