Scuola pubblica 1 – la macchina dell’istruzione statale

All’apertura dell’anno scolastico 2016/17 gli studenti della scuola pubblica statale sono circa 9 milioni. Quelli della scuola pubblica paritaria sono quasi 1 milione. Gli insegnanti indicati nell’organico di fatto sono 728 mila, di questi 101 mila quelli di sostegno. Nel 2015 lo Stato ha messo in bilancio 49.418 milioni di euro per la scuola statale e 494 milioni per quella paritaria (1,2% del totale).

Si tratta di una struttura gigantesca, che offre un servizio che lascia largamente insoddisfatti sia gli utenti sia gli addetti. Ogni anno perdiamo circa 180 mila ragazzi, che vanno a gonfiare il fiume dei NEET (Not in Education, Employement or Training), ossia delle persone che non studiano, non lavorano e nemmeno seguono corsi di formazione professionale. Il Rapporto OCSE del 15 settembre 2016 li segnala in Europa:aumento: quest’anno sono il 25% dei giovani tra i 15 anni e i 29 anni.

Quanto agli insegnanti, la loro condizione è sempre più ridotta a quella di un proletariato intellettuale mal preparato, poco pagato, non valutato, senza carriera, senza valore sociale. La femminilizzazione del corpo docente è la spia di questa dequalificazione sociale: più dell’80% degli insegnanti sono donne.

Dentro questa struttura si è inceppata la trasmissione del sapere di civiltà dalle generazioni adulte a quelle giovani. Ciò che è in questione non è solo la quantità di conoscenze e nozioni, che pure sono la base delle competenze – la competenza è una conoscenza che diventa habitus, che si incarna nella vita -, ma il processo educativo stesso, che consiste nel fornire ai ragazzi tutti gli strumenti intellettuali e morali con i quali fare società e fare storia, a partire dalla propria libertà e responsabilità.

La rottura del legame tra istruzione e educazione è il sintomo di una rottura più profonda: quella tra le generazioni adulte – che dovrebbero consegnare il testimone della staffetta a quelle più giovani che stanno davanti a loro – e le generazioni giovani, che si slanciano in avanti, senza aspettare il testimone. Se questa rottura si consuma, va in crisi l’identità nazionale, si aprono scenari imprevedibili.

Il 29-31 gennaio del 2003 al Forum del Consiglio dell’International Bureau of Education, David Instance, analista senior del CERI (Center for Educational Research and Innovation, organismo di ricerca dell’OCSE) aveva delineato sei scenari dell’entropia del sistema educativo euro-atlantico. I primi due ci riguardano.

Lo scenario 1.a prevede la continuazione di potenti strutture burocratiche, che premono per mantenere l’uniformità del sistema e manifestano una grande resistenza a cambiamenti radicali. Le scuole rimangono istituzioni a sé stanti, gestite attraverso complessi meccanismi amministrativi. Il governo dell’istruzione rimane accentrato a livello nazionale, anche se esigenze di maggiore efficienza spingono a sperimentare una ridistribuzione del potere tra i vari livelli. Premono in questa direzione una serie di motivi quali l’autonomia scolastica, il decentramento verso le comunità locali, i crescenti interessi del “mercato” nei confronti dell’istruzione, e la sempre maggiore globalizzazione.

Lo scenario 1.b prevede un collasso dei sistemi, dovuto al rapido invecchiamento e al basso morale degli insegnanti. Irrealistica risulta l’attribuzione di consistenti miglioramenti economici per attirare e trattenere gli insegnanti, poiché questo comporta investimenti enormi e insostenibili, considerato l’elevatissimo numero di insegnanti necessari a far funzionare l’apparato dell’istruzione. La crisi rafforza in un primo tempo il potere centrale, chiamato a svolgere nuovi compiti per fronteggiare la situazione. Appare molto probabile che in queste condizioni si restringano gli investimenti per le infrastrutture scolastiche, dal momento che i fondi devono essere sempre più dirottati sugli stipendi.

La domanda è: questo sistema è riformabile?


Pensieri in libertà ha ritenuto opportuno commissionare a Giovanni Cominelli, esperto riconosciuto del settore dell'istruzione, una serie di articoli che servano a gettare qualche sassolino nelle acque stagnanti del mostro sistema di istruzione ormai impegnato, complice il mondo dell'informazione, a discutere solo di immissioni in ruolo, concorsoni, deportazioni, ...

Lo scopo è quello di svolgere qualche ragionamento a mente aperta sui nodi di fondo del sistema e sulle ipotesi di miglioramento. Altri contributi sono bene accetti.

Per evitare che la discussione si disperda nei rivoli dei diversi gruppi FB su cui questi contributi vengono pubblicati e consentire agli autori di replicare è consigliabile che gli interventi avvengano in coda all'articolo utilizzando l'apposito modulo. Per chi non ha mai pubblicato è richiesta, la prima volta, la approvazione dell'amministratore.

Info su Giovanni Cominelli

Giovanni Cominelli, iscritto a Filosofia all’Università Cattolica di Milano dal 1963 al 1965, alla Frei Universität nel 1965/66, laureato in filosofia con Enzo Paci all’Università statale di Milano nel marzo del 1968. Negli anni ’70 é stato membro della Segreteria nazionale del Movimento studentesco/Movimento lavoratori per il Socialismo. Eletto nel 1980 in Consiglio comunale a Milano per l’MLS-PDUP nel 1980, nel 1981 è subentrato come Consigliere regionale a Luciana Castellina, fino al 1990. Nel novembre del 1982 è entrato nel PCI, su posizioni riformiste e miglioriste. E’ uscito dal PCI-PDS nel 2000, aderendo ai Radicali fino al 2004. Iscritto al PD dal 2015. Esperto di politiche scolastiche, dal 1985 al 2000 responsabile scuola del Pci-Pds-Ds in Lombardia e membro della Commissione nazionale scuola. Membro del Gruppo di lavoro per la Valutazione, istituito nel 2001 dal ministro Moratti, fino al 2004. Dal 2002 al 2004 membro del Comitato tecnico scientifico dell’Invalsi, poi consulente per la comunicazione fino al 2005. Dal 2003 al 2005 ha organizzato la manifestazione Job&Orienta della Fiera di Verona dedicata all’istruzione. Membro del Cda dell’Indire dal 2005 al 2006, è stato responsabile delle politiche educative della Compagnia delle Opere dal 2005 al 2007 e della Fondazione per la Sussidiarietà fino al luglio 2010. Ricercatore presso il Cisem nel 2010. Svolge attività di formazione nelle scuole. Collabora alla Rivista mensile Nuova secondaria. Ha scritto di politiche educative su Il Riformista, Tempi, Il Foglio, Avvenire, Il Sole 24 Ore e i libri La caduta del vento leggero (2007) e La scuola è finita… forse (2009). Oggi editorialista de L’ECO DI BERGAMO e di santalessandro.org, settimanale della Diocesi di Bergamo. Scrive sul Sussidiario.
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4 risposte a Scuola pubblica 1 – la macchina dell’istruzione statale

  1. Ennio Abate scrive:

    "Perché non si ha il coraggio di vedere che l'unica soluzione possibile sta nel perseguire la libertà e quindi cambiare radicalmente il modello di scuola centralizzata, statale e uguale per tutti e a ogni latitudine, che è invece radicata non sulla libertà ma sul controllo autoritario? " (Aguzzi)

    Perché quando una parte degli studenti, degli insegnanti, dei presidi ecc., in anni ormai lontanissimi ('68), questo coraggio l'hanno avuto e hanno anche presentato progetti di vasto respiro ( ricordo Cooperazione educativa ma anche riviste più istituzionali come "Riforma della scuola" e scritti di De Bartolomeis, per non parlare di don Milani, di "Summerhill" di "L'Erba voglio") sono stati sconfitti. E' la risposta più semplice anche se amara. La paralisi attuale (se non il regresso) della scuola e dell'università è solo il sintomo di quella dell'intera società spappolata. Il coraggio per ora non viene né agli studenti né agli insegnanti; e ai presidi-colonnelli d'oggi figuriamoci. Lo si può infondere dall'esterno? Siamo troppo ripiegati sul passato e non pensiamo al futuro? Davvero i giovani sono il futuro, anche se noi vecchi un futuro non lo vediamo più perché sono venute meno le idee che stringevano in un progetto passato presente e futuro? Ma i giovani sarebbero il futuro sol perché vivranno in un tempo futuro o perché stanno progettando una società futura diversa da quella che noi abbiamo vissuto?
     

  2. Angelo Ricotta scrive:

    "Perché non passare a un modello di scuola autogovernato su base locale (comunale, al massimo) e non centralizzato?"
    Quello che io ho constatato è che più si decentralizza più la situazione peggiora. Ad esempio la sanità passata alle regioni ha visto gonfiarsi enormemente i costi e proporzionalmente diminuire l'omogeneità e l'efficienza complessivamente.

  3. Luciano Aguzzi scrive:

    Il dibattito sulla scuola è inesauribile quanto ripetitivo. Ogni "agenzia" o "operatore" educativo (che brutte parole per dire società, scuola, insegnanti, famiglie, genitori, luoghi del tempo libero ecc.) è in polemica, l'uno contro l'altro, e in particolare si ripetono le lamentele dei genitori contro gli insegnanti e quelle degli insegnanti contro i genitori, il governo ecc.
    Dopo una vita passata a scuola, credo di poter concludere che i principali nemici dei ragazzi sono la scuola stessa (in tutta la sua organizzazione, compresi i docenti, salvo eccezioni), i genitori e l'organizzazione sociale nel suo complesso. Ma non si tratta di un complotto contro i giovani, organizzato per cattiveria, bensì del fatto abbastanza naturale che la società, e gli "operatori" pedagogici, pensano, e operano, più sulla base del passato che in funzione del futuro e che operano per riprodurre, nei giovani e con i giovani e per mezzo dei giovani, la società che conoscono, cioè il passato. La società degli adulti (compresi scuola, famiglia ecc.) rappresenta il passato, i giovani il futuro (bello o brutto che sia o che sarà), da qui l'inevitabile conflitto che ci è documentato da ormai tremila anni di storia scritta. Solo quando i genitori, gli insegnanti, la scuola, la società riescono a incontrarsi con i giovani in una prospettiva del futuro, e solo quando il passato serve a questo incontro e non a una cultura a sé stante, avviene quella specie di miracolo che trova uniti i giovani, nel ruolo di allievi, e gli adulti, nel ruolo di maestri. Però parlo di un incontro che riguardi davvero il futuro (che sia quindi innervato di coraggio, di fantasia, di creatività), il vero futuro, e non quello falso delle prediche (esplicite o implicite) del "ti conviene farlo, è per il tuo bene", quando si tratta invece di un bene a misura degli adulti. Purtroppo molti adulti non progettano per il futuro, ma progettano un futuro immaginato sulla base del passato. Questi adulti non riusciranno mai ad essere dei buoni maestri, nel senso profondo di questo temine. Negli anni '70 Graziano Cavallini scrisse un libro sulla scuola intitolato "La fabbrica dei deficienti" e sono decine e decini i libri scritti per sostenere questo stesso concetto. La scuola non promuove la creatività, anzi tende a mortificarla e reprimerla. Non per nulla molte personalità di primo piano si sono formate fuori della scuola o in polemica con essa. Questa, purtroppo, è la realtà di una scuola la cui ideologia è il controllo e la riproduzione del presente.
    Il modello autoritario è quello "normale", cioè quello per cui è organizzata la maggior parte delle scuole, e in genere tutte quelle statali. Dal ritratto che Orazio fa del grammatico e insegnante Lucio Orbilio Pupillo, alle regole dei collegi dei Gesuiti (che pure sono uno dei prodotti migliori della pedagogia dell'età moderna), alla normativa delle scuole statalizzate ai tempi di Giuseppe II e poi di Napoleone, fino a quelle delle scuole fasciste (naziste, staliniste ecc.) così abbondantemente presenti ancora oggi, nel 2016, le preoccupazioni maggiori dei pedagogisti di Stato sembrano essere quelle del controllo dell'ortodossia sociale degli allievi e della limitazione della loro libertà. Non solo libertà di movimento, ma anche e soprattutto di pensiero. La creatività, in questo tipo di scuola, sembra sempre essere un fastidio, perché esce dalla rigida organizzazione costruita intorno agli allievi e sulla loro testa e voglia di vivere. La pedagogia ha spesso indicato il modo di conciliare libertà e creatività con una responsabile disciplina (e autodisciplina), ma sembra che, salvo in qualche caso di scuole sperimentali o scuole di particolare indirizzo (in Italia in qualche scuola montessoriana, in qualche scuola che segue l'indirizzo di Rudolf Steiner o in qualche scuola improntata all'attivismo didattico), lo Stato sia incapace di conciliare la prassi didattica normale con la libertà e la creatività degli allievi.
    La scuola, pertanto, come negli antichi tempi, resta una struttura di controllo e di riproduzione sociale del presente, più che di educazione e istruzione in vista del futuro. Perché allora lamentarsi se troppe cose vanno male e se decenni (ma io direi secoli) di riforme non fanno che rimescolare l'acqua nello stesso tegame? Perché non si ha il coraggio di vedere che l'unica soluzione possibile sta nel perseguire la libertà e quindi cambiare radicalmente il modello di scuola centralizzata, statale e uguale per tutti e a ogni latitudine, che è invece radicata non sulla libertà ma sul controllo autoritario? Perché non passare a un modello di scuola autogovernato su base locale (comunale, al massimo) e non centralizzato?
    Perché in questo accanimento contro la libertà e a favore del centralismo statalistico le cosiddette parti politiche, di destra e di sinistra, pur in litigio perpetuo sui particolari poco importanti, sono completamente d'accordo?

  4. Alberto Rizzi scrive:

    In linea di massima qualsiasi sistema è riformabile, Sig. Cereda: anche se – nel caso della scuola italiana – sarebbe meglio parlare di ricostruzione, piuttosto che di riforma. Non foss’altro perché trent’anni di interventi all’insegna dello sfascio, sono stati pianificati con l’intento di creare danni permanenti al nostro tessuto sociale; danni che non sono misurabili, nei giovani, solo sul piano del calo culturale, ma vorrei dire soprattutto come deresponsabilizzazione e perdita delle capacità di autovalutazione.

    E occorre partire da alcuni punti fissi: per esempio che ormai diverse generazioni sono state buttate nel cesso; con una minoranza di persone che sono riuscite comunque ad affermarsi, magari all’estero, ma che per il resto sono difficilmente recuperabili (e di questo parlerò più avanti); per esempio che questo sfascio è collegato alla realizzazione di un preciso modello socio-economico: per cui non è possibile pensare che l’attuale classe politica (con la maggioranza del corpo elettorale che la sostiene) si faccia portavoce di un’inversione di tendenza.

    Comunque, per non andare troppo per le lunghe con le introduzioni al problema, a mio parere occorrerebbe giocare prima di tutto la carta della responsabilizzazione e dell’importanza del concetto “causa-effetto”, iniziando dalle scuole medie superiori: il che significa tornare a fare selezione in maniera meritocratica. Finché ci saranno scuole che, per farsi reciproca concorrenza, disperderanno la loro capacità di specializzare a favore di un piano di studi sempre più arlecchinesco; finché i docenti continueranno a dare voti dopati, per evitare polemiche con le famiglie, o per evitare di prendersi la responsabilità di fermare un ragazzo, che non ha sufficienti capacità, volontà o che addirittura non è nel tipo di corso di studi adatto a lui: finché le cose continueranno in questo modo, parlare di merito sarà solo prendersi in giro.

    Quindi, questi sono per me i passi da fare, detti in maniera molto schematica:
     Ritorno a una scuola selettiva e meritocratica alle superiori per almeno un ciclo (cioè almeno un quinquennio): allo scopo di creare di nuovo un congruo numero di giovani motivati a continuare gli studi, o a cercare impiego nel settore che più si adatta loro; e con un livello di autostima sufficiente a non far loro accettare i ricatti della corruzione nel mondo del lavoro.
     Di conseguenza ritorno ad una vera specializzazione degli Istituti e dei Licei, con almeno un programma di massima statale per ciascuna delle categorie. "Programma di massima" significherebbe che potrebbero venir accettate “personalizzazioni” del piano di studi per ciascuna scuola; ma questo è un punto tutto da discutere: si sa come l’italiano medio sia campione (anche quando Dirigente di una scuola), nel campare di “eccezioni alla regola”, per portare avanti interessi personali alla faccia del bene pubblico.
     Contemporaneamente avviare una sperimentazione, su quale modello di scuola meritocratica ma non verticistica sia atto a sostituire il modello attuale: di questi modelli ce n’è un buon numero (a cominciare da quello steineriano) e questa sperimentazione va iniziata partendo dalle scuole di base, cioè almeno dalle elementari.
    Il periodo di sperimentazione dovrà durare non meno di cinque anni; una volta concluso si inizierà a convertire a quello scelto il modello di insegnamento esistente, partendo dagli stadi iniziali del processo educativo.
    Solo in questo modo, credo, si potrà passare in maniera armonica a un sistema educativo, che insegni ai giovani le basi prima e l’utilizzo poi di uno strumento quale la democrazia diretta, o “di base”.
     Progettare un sistema di scolarizzazione sul modello della benemerita “Non è mai troppo tardi”, immagino da gestire stavolta per via informatica, per recuperare fra quelle “generazioni buttate nel cesso” (come le ho definite più sopra) chi lo voglia.

    Un impegno immane, come si vede: che solo la forza di volontà e l’unità di quella “minoranza sana”, ancora impegnata a contrastare – per quanto tuttora in ordine sparso, almeno qui in Italia – il progetto di destrutturazione della nostra società, potrebbero far iniziare con qualche probabilità di successo.
    Ed è inutile dire (né io in fondo me ne stupisco più di tanto) che, malgrado da anni vada esponendo queste idee fra i colleghi e dovunque possa, non sono mai riuscito a trovare sponda; nemmeno all’interno del M5S, per il periodo durante il quale ne feci parte.

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