Renzi e la difficile (ri)costruzione della leadership

Renzi vincerà le primarie degli iscritti del PD, che si chiudono oggi 2 aprile. È l’effetto dello spostamento degli ex-militanti del PCI-PDS-DS e del PD veltroniano (ex-PCI +DC) verso il PD di Renzi.

Benché i resti del PCI vetero-riformista si riconoscano attorno alla candidatura Orlando – che si avvale dell’appoggio della vecchia nomenklatura migliorista di Napolitano e Macaluso – la base ha voltato pagina.

Detto in termini di cultura politica: è assai più vicina al profilo culturale di una sinistra riformista di governo. È quella che ama più le soluzioni che le denunce del malandare, che diffida delle promesse multicolori di un nuovo Eden, delle trasformazioni epocali, di un mitico nuovo modello di sviluppo, della “decrescita felice” e via fantasticando. Realista e riformista.

Il partito di lotta e governo di Berlinguer è finito e D’Alema se n’è andato

Ci sono voluti quasi trent’anni, ma ora la cultura berlingueriana del “partito di lotta e di governo” è stata congedata a favore del “partito di governo”. Abbarbicato al togliattismo-berlinguerismo, – che aveva pur sempre davanti l’orizzonte “altro” del comunismo, ancorché democratico, per via di ossimoro – e all’oligarchia autoreferenziale cresciuta su di esso, D’Alema se n’è andato.

Il PD non è più il partito di Berlinguer, non è più il partito di D’Alema. Quanto a Bersani, soffre di confusione intellettuale, se pensa che il populismo di Grillo si sconfigga alleandosi con Grillo. Il primo a sostenerlo fu Mitridate, re del Ponto: assumendo piccole dosi di veleno – oggi di grillismo – si poteva scampare al veleno di Roma – oggi di Grillo. Morì trafitto dalle spade dei propri soldati.

Bersani ha dimenticato la distinzione fondamentale operata da Togliatti, già alla fine degli anni ’20, tra “base di massa” e “base di classe” – oggi diremmo, meglio, “base politico-culturale” – di un movimento reazionario.

Tutti i partiti, nessuno escluso, hanno una base popolare di massa. Non per ciò sono tutti “di sinistra”. Si è già dato, ieri, il caso di adesioni di massa al fascismo e al nazismo e, oggi, al lepenismo. Il M5S diventa un interlocutore, perchè è votato dal popolo? Ma che dire della sua leadership, totalitaria sul piano politico-ideologico e avventurista sul piano programmatico? Insomma: la proposta di Bersani è quella di arrendersi, per non essere sconfitti. Resta Renzi.

Le colpe non riconosciute della sconfitta del 4 dicembre

Tuttavia, la fuga scomposta e ultraminoritaria degli scissionisti e l’aumento del consenso degli iscritti non mettono Renzi al riparo delle tempeste in arrivo. Intanto, perchè i partecipanti alle primarie “esterne”, che si terranno il 30 aprile, aperte ai potenziali elettori, sono più interessati alle prospettive di governo del Paese e alla capacità del leader di assumersi le responsabilità piuttosto che alle rese dei conti interne al PD.

Su questa capacità i dubbi non mancano. Chi si attendeva un’analisi realistica e spietata della sconfitta del 4 dicembre è rimasto deluso.

  • Sconfitto, perchè ha messo l’Io al posto del Noi?
  • Perchè si è spiegato male o perchè non è stato capito? Tutta questione di cattiva comunicazione?

È questo il mantra di tutti gli sconfitti. Perchè non riconoscere, viceversa, che la madre di tutti gli errori è stata l’elezione unilaterale di Mattarella e la conseguente rottura del Patto del Nazareno? Questo errore gravissimo ha segato una gamba della sedia di Renzi, lo ha costretto a mettere in gioco tutto, a personalizzare lo scontro, ad andare a referendum, uno contro tutti. Dietro stava una sorta di “ubris” da 40%, che già l’esito delle elezioni Amministrative del giugno 2015 aveva sconfessato.

Le oscillazioni del dopo voto. Lo sterile inseguimento dei grillini

A questa catena di errori si devono aggiungere le incertezze e oscillazioni del dopo-voto: votare subito o no, congresso subito o no, quale legge elettorale? Dopo un ko si è poco lucidi, evidentemente. Tra gli errori non ancora riconosciuti si debbono annoverare anche le motivazioni “grilline” tanto della campagna referendaria – le riforme istituzionali finalizzate a ridurre o a spezzare la casta?! – quanto della spinta per andare a votare prima del settembre 2017, per impedire ai parlamentari di intascare il vitalizio.

La conferma di una difficoltà di comprensione delle cause della sconfitta arriva anche da un esame del testo della Mozione Renzi, su cui sono stati chiamati a votare gli iscritti. All’ammissione degli errori commessi, non segue un’analisi delle loro cause.

Non si parla più di governo forte

Manca totalmente la questione del governo forte, che la vittoria del combinato-disposto “abolizione del bicameralismo perfetto e Italicum” doveva garantire. Ora, dopo due anni di campagna referendaria sul tema, il governo forte istituzionalmente non è più una priorità? Non è una mozione di sinistra di governo, è piuttosto una “mozione degli affetti” rivolta ad un partito introverso, ripiegato su di sé.

Eppure, la domanda di governo forte e duraturo sta montando; di fronte all’instabilità quasi certa, provocata dalla deriva verso il proporzionalismo di quasi tutte le forze politiche, a partire da Berlusconi, essa potrebbe gonfiarsi patologicamente fino all’invocazione di “un uomo forte”, prodotto inevitabile della imperante “democrazia dei creduloni”. Insomma, dopo gli anni renziani della rottamazione veloce, la costruzione di una leadership appare più faticosa.

La rottamazione non basta

Il fatto è che anche Historia non facit saltus. La rottamazione ha avuto una sua forza quale pars destruens. Solo un leader giovane poteva avere l’energia e la sfrontatezza iconoclastica per praticarla. Ma soffriva di limiti, che oggi appaiono più evidenti. In particolare l’idea, che il riformismo fosse nato solo nel 2013, prima solo tenebre. Come se, sotto le macerie di tutti i vecchi partiti – DC, PCI, PSI, PSDI, PRI, PLI – non ci fossero giacimenti preziosi di cultura riformista di governo. Renzi se n’è accorto solo al Lingotto. Senza coscienza storica – che forse a quarant’anni non si può avere – la politica non prende radici, e neppure la leadership democratica.

 

Info su Giovanni Cominelli

Giovanni Cominelli, iscritto a Filosofia all’Università Cattolica di Milano dal 1963 al 1965, alla Frei Universität nel 1965/66, laureato in filosofia con Enzo Paci all’Università statale di Milano nel marzo del 1968. Negli anni ’70 é stato membro della Segreteria nazionale del Movimento studentesco/Movimento lavoratori per il Socialismo. Eletto nel 1980 in Consiglio comunale a Milano per l’MLS-PDUP nel 1980, nel 1981 è subentrato come Consigliere regionale a Luciana Castellina, fino al 1990. Nel novembre del 1982 è entrato nel PCI, su posizioni riformiste e miglioriste. E’ uscito dal PCI-PDS nel 2000, aderendo ai Radicali fino al 2004. Iscritto al PD dal 2015. Esperto di politiche scolastiche, dal 1985 al 2000 responsabile scuola del Pci-Pds-Ds in Lombardia e membro della Commissione nazionale scuola. Membro del Gruppo di lavoro per la Valutazione, istituito nel 2001 dal ministro Moratti, fino al 2004. Dal 2002 al 2004 membro del Comitato tecnico scientifico dell’Invalsi, poi consulente per la comunicazione fino al 2005. Dal 2003 al 2005 ha organizzato la manifestazione Job&Orienta della Fiera di Verona dedicata all’istruzione. Membro del Cda dell’Indire dal 2005 al 2006, è stato responsabile delle politiche educative della Compagnia delle Opere dal 2005 al 2007 e della Fondazione per la Sussidiarietà fino al luglio 2010. Ricercatore presso il Cisem nel 2010. Svolge attività di formazione nelle scuole. Collabora alla Rivista mensile Nuova secondaria. Ha scritto di politiche educative su Il Riformista, Tempi, Il Foglio, Avvenire, Il Sole 24 Ore e i libri La caduta del vento leggero (2007) e La scuola è finita… forse (2009). Oggi editorialista de L’ECO DI BERGAMO e di santalessandro.org, settimanale della Diocesi di Bergamo. Scrive sul Sussidiario.
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