San Galgano si chiede, ma il federalismo culturale cos’è?

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Mi scuserete per il titolo vagamente surreale. La notizia è che l'abbazia di San Galgano, il gioiello della architettura gotica toscana passa dal demanio statale al Comune di Chiusdino, dove è nato San Galgano, il comune della val di Merse entro i cui confini si trovano l'abbazia e l'eremo di Montesiepi (quello della spada nella roccia, la spada che il cavaliere Galgano piantò nella roccia tufacea quando decise di darsi ell'eremitaggio).

Se vogliamo partire dalla fine diciamo che è stato sottoscritto tra Comune di Chiusdino (Sindaco Luciana Bartaletti), agenzia del demanio (proprietaria del bene), ministero dei beni culturali, sovraintendenza alla archeologia belle arti e paesaggio un "un Accordo di valorizzazione per il trasferimento del complesso monumentale “Abbazia di San Galgano” dallo Stato all’amministrazione comunale, come previsto dalle procedure del federalismo demaniale culturale".

La firma dell'accordo è prodromica al trasferimento legale di proprietà, previsto per il mese di settembre. Dato che non si trattava di una cosina da nulla alla firma era presente il sottosegretario ai beni culturali, ex presidente del FAI, Ilaria Borletti Buitoni.

Incuriosito, intrigato e un po' dubbioso ho chiesto a Bartaletti di poterci capire qualcosa di più, in termini di quel che accade e di ciò che c'è stato prima e così ho passato una mattinata a san Galgano con lei e con il direttore del museo Antonello Mennucci.

Entrambi hanno tenuto a sottolineare una cosa; il piano, costituito da un corposo studio redatto dall'architetto Giulio Romano (bizzarra omonimia, alcuni secoli dopo, con il padre dell'arte e dei monumenti rinascimentali di Mantova) costituisce una premessa importante, ma la cosa che è ritenuta ancora più importante, è che il comune di Chiusdino, divenendo proprietario avrà modo di spendere fondi a bilancio con una maggiore facilità di quanto non consentisse il precedente regime delle concessioni.

La vicenda prende le mosse nei primi anni 2000 quando la comunità di recupero per tossicodipendenti l'Incontro (don Gelmini) abbandona san Galgano che le era stata concessa in uso dal demanio. Il comune di Chiusdino interviene sulla base di concessioni annuali via via prorogate e inizia a metterci del suo in termini di vigilanza e manutenzione ordinaria e straordinaria. Nel 2010 viene approvata la legge sul federalismo culturale demaniale e il comune di Chiusdino nell'estate del 2011 chiede la assegnazione in proprietà.

La norma prevede la stesura di un apposito progetto a cura del comune e mentre prende l'avvio questa nuova fase si arriva alla firma di una concessione decennale (2010) che assegna al comune di Chiusdino la gestione dell'area a fronte di intereventi vari di manutenzione ordinaria e straordinaria oltre che la realizzazione di iniziative culturali e la stabilizzazione di un gruppo di 5 persone per la gestione della biglietteria con un esporso annuo complessivo (tra canone e interventi) che supera i 200 mila euro.

Si arriva così al 2014 quando inizia la fase di esame del progetto con l'intervento di svariati soggetti (università, sovraintendenza, demanio, direzione regionale per i beni culturali, che coordina). Il progetto inizialmente proposto dal comune viene così limato, aggiornato e migliorato finché una decina di giorni fa si arriva all'ok definitivo.

Complessivamente nell'arco di 10 anni il comune di Chiusdino ha speso 2 milioni e 400 mila euro direttamente e altri 1 milione e 300 mila indirettamente (su Montesiepi, per il museo, per l'area Miraduolo). Ora è prevista una fase di 5 anni nel corso della quale, a fronte di un investimento di 2 milioni di euro, verranno realizzate le seguenti cose:

  • analisi, messa in sicurezza e monitoraggio della situazione in ordine alla sismicità
  • sistemazione della zona rimanente del vecchio convento con realizzazione di un laboratorio per le arti e con il ripristino della zona delle celle (realizzate quando l'abbazia, abbandonata dai cistercensi che si erano ormai insediati a Siena, fu gestita dai francescani)
  • realizzazione di percorso interni alla basilica (nella parte dei loggiati alti) e di connessione con il convento con apertura e possibilità di visita di tutti gli spazi accessibili (chiostro, aula capitolare, basilica, sacrestia, biblioteca, scriptorium)
  • messa in sicurezza e valorizzazione di tutte le parti dipinte e affrescate all'interno
  • lavori di scavo nel vecchio cantiere di costruzione della basilica e dove esisteva la restante parte del monastero sul lato destro e ortogonalmente all'edificio attuale
  • manutenzione ordinaria e straordinaria (piccioni, pulizia dagli infestanti, ..)

Ma c'è anche dell'altro, di collaterale.

  • Il comune di Chiusdino ha acquisito l'area archeologica di Miraduolo (le ipotesi di scavo dell'antico cantiere di san Galgano si originano dai rilievi fotogrammetrici derll'università di Siena) e si ipotizza la realizzazione di un museo (ancora da collocare) per la valorizzazione del materiale già scavato e in corso di scavo a Miraduolo
  • Sistemazione a Chiusdino della casa natale di san Galgano con la cappella e le prigioni (di proprietà comunale pur se in gestione alla confraternita).

Un dato che sicuramente ha pesato a favore delle credenziali di Chiusdino riguarda il trend dei visitatori della abbazia che passano dai 47 mila del 2011 ai 126 mila del 2012 e si stabilizzano su questo valore con un leggera crescita annuale (il dato del 2015 è di 136 mila). Di questi visitatori, con programmi largamente definiti dai tour operator che prevedono l'abbazia e l'eremo più del 10% visitano poi anche il museo di Chiusdino e il dato segna una positiva inversione di tendenza rispetto alla sorte dei piccoli musei sparsi nel territorio.

Questo è quanto e magari, con il progetto in mano, ci si potrà tornare sopra , ma mi sia consentita una considerazione finale. Certo sarebbe stato bello se la val di Merse fosse una realtà territoriale (comunale) unica, ma non è così e sono ben note le difficoltà di funzionamento, le invidie e le lentezze dell'unione dei comuni. Chiusdino ha i soldi della geotermia e li reinveste per i suoi cittadini (teleriscaldamento) e per il territorio. Il federalismo culturale demaniale è una opportunità per gli enti locali e, naturalmente il demanio prima di procedere fa le sue verifiche. In questo caso si è verificato un interesse attuale e un impegno più che decennale. Detto papale papale c'è chi dà garanzie e chi non le dà.

Se l'Unione dei Comuni (di cui Bartaletti è presidente pro tempore) vuole dare un senso alla propria esistenza potrebbe impegnarsi sul turismo culturale (oltre che ambientale) di area. Mi riferisco a Castiglion che Dio sol sa a Sovicille, all'abbazia di Torri, ai tanti beni di Monticiano (dal chiostro di sant'Agostino, alla chiesa, al tesoro museale non valorizzato del beato Antonio molto più ricco di quello di Chiusdino, all'eremo di Camerata) per finire con quel bene che in Europa è noto quanto san Galgano, le terme di Petriolo (sotto l'aspetto termale e della archeologia medioevale). Si faccia un marchio, si imposti una offerta turistica unitaria, eccetera, eccetera, eccetera.

Questo è un territorio in cui i progetti iniziano e non finiscono mai per via dei diecimila attori coinvolti, perché si progetta in grande e si conclude in piccolo, perché si fa troppo affidamento sullo spirito santo che, dopo le vicende del Monte dei Paschi, si è messo a volare altrove. Per esempio, parlando del museo della biodiversità a Monticiano, c'è sempre qualcosa che si frappone e impedisce di partire (la Provincia, la Regfione, l'Unione dei Comuni). Io sono arrivaro qui nel 2011 ed è dal 2012 che ne sento tessere le lodi in termini di bellezza e modernità. Sta sempre per aprire, ma non apre, c'è sempre un problema come se le moderne tecnologie non fossero soggette ad un rapido invecchiamento. Con il federalismo demaniale sono i sindaci a metterci la faccia, ad impegnarsi e ad assumersi le loro responsabilità senza gli alibi del funzionario che ha rallentato il processo. 

Chi vuole capire capisca.


un po' di storia – ripresa dal progetto

I cistercensi appartenevano ad un ordine monastico benedettino, fondato nel 1098 a Citeaux (in latino Cistercium) dall’abate Roberto di Molesme con lo scopo di ripristinare la regola di San
Benedetto alquanto travisata da altri rami monastici. Grazie a Bernardo di Chiaravalle (1090-1153) l’ordine si sparse in tutta Europa diffondendo il proprio stile peculiare, improntato, anche nelle arti
e nell’architettura, alla semplicità e al rigore.

La più antica notizia della presenza dei cistercensi in Val di Merse, risale ad appena dieci anni dopola morte del santo cavaliere eremita chiusdinese, avvenuta il 30 novembre 1181, ossia nel 1191,quando l’imperatore Enrico VI prese sotto la sua protezione i monaci dell’eremo di Montesiepi “chegiungevano in Toscana da Chiaravalle”. Questi erano stati chiamati presumibilmente dal vescovodi Volterra col duplice intento di regolare il primo gruppo di eremiti che si era costituito mentre il santo era ancora in vita, e di ostacolare in qualche modo l’ingresso del comune di Siena nella Valledel Merse.

L’incontro tra le due comunità, quella originaria, per così dire galganiana, e quella cistercense che, negli intenti del vescovo, doveva condurre alla loro fusione, in realtà non fu indolore: alcuni eremiti “rifiutatisi di entrare nell’ordine cistercense” abbandonarono Montesiepi per fondare altri eremi nella Toscana settentrionale o orientale. Nel 1206, papa Innocenzo III riconobbe la fondazione di Montesiepi come cistercense. Il monastero in cui vivevano i monaci, ancora esistente anche se inglobato dalle costruzioni successive, divenne piccolo. La collina però non permetteva alcun ampliamento significativo e i
monaci decisero dunque di spostarsi nella valle sottostante.

Importante per i monaci di San Galgano fu il sostegno del cardinale Stefano da Ceccano, una dellepersonalità ecclesiastiche di maggiore spicco dell’inizio del XIII secolo, ed egli pure già monacocistercense.

Il completamento del complesso abbaziale richiese molti anni. In esso si riscontra l’applicazione dei più rigidi criteri dell’arte e delle usanze dei monaci cistercensi. Le più antiche attestazione del cantiere dell’abbazia risalgono al 1218; i lavori terminarono circa sessant’anni dopo, nel 1288.

La chiesa abbaziale e il monastero costituiscono uno degli esempi più interessanti dello stile goticocistercense e uno dei capisaldi per la diffusione di questo stile in Italia.

La chiesa, a croce latina, è orientata ad Est e scandita in tre navate spartite in otto campate da due ordini di pilastri raccordati da archi a sesto acuto. Il coro è quadrangolare e i bracci del transetto sono dotati di quattro cappelle. In origine il complesso era coperto da volte a crociera e all’esterno era in conci di travertino eccezion fatta per la parte inferiore del lato meridionale, realizzata in laterizi. L’edificazione iniziò dal transetto e dal coro arrestandosi inizialmente a circa un quarto dello sviluppo del colonnato meridionale della navata, esattamente nel tratto dove si riscontra in maniera evidente un cambio di tecnica costruttiva e la realizzazione di murature meno raffinate e costituite da un maggior numero di conci di travertino poroso.

In questo momento il cantiere sidedicò alla realizzazione degli ambienti monastici, come ad esempio il lato comprendente la salacapitolare e il vasto scriptorium. E’ assai probabile che la costruzione di questa porzione di edificiosia stata realizzata avvalendosi di maestranze di cultura pisana, come paiono attestare la foggiadegli archi e l’uso di peculiari attrezzi utilizzati per spianare le pietre.

Soltanto in seguito la chiesa venne completata proseguendo verso la facciata ed edificando il lato settentrionale. Il rivestimento della facciata si interruppe poco oltre il livello dei portali. In questa fase operarono principalmente maestranze provenienti da Siena. Forse a completamento dell’opera l’interno della chiesa venne interamente scialbato (imbiancato) e dipinto a false pietre delineate da linee rosse. Tracce di questo trattamento parietale si ritrovano soprattutto all’interno delle cappelle del braccio destro del transetto.

Nonostante i propositi del vescovo di Volterra i rapporti con il comune di Siena furono frequenti e intensi: dalla giurisprudenza alla tecnica, dall’economia all’architettura. Dal 1252 e fino al 1375 i monaci di San Galgano vennero chiamati a ricoprire l’ufficio di camerlenghi di Biccherna, ovvero ad amministrare le entrate e le uscite dello Stato senese; dal 1257 al 1313 li troviamo a dirigere l’opera del duomo di Siena nel momento del suo massimo sviluppo. Lo stato senese introdusse ed accolse progressivamente il santo chiusdinese fra i propri santi protettori, facendo assurgere la semplice venerazione per lui alla dignità di culto civico ed identitario.

Anche il sistema delle grance, fattorie fortificate dipendenti dall’abbazia alle quali faceva capo una determinata porzione del territorio, venne esportato a Siena e applicato sistematicamente anche dal maggiore ospedale senese: il Santa Maria della Scala.

Nel 1364 l’abbazia vene interessata da incursioni di compagnie di ventura al servizio di Firenze, ma il male peggiore per l’intero complesso sarebbe stata la “commenda”, vera peste che portò alla rovina di numerosi monasteri. L’abbazia fu eretta in commenda all’inizio del XVI secolo, sotto il pontificato di Giulio II. Gli abati commendatari, abati titolari non appartenenti all’ordine, non eletti dai monaci ma nominati dalla Santa Sede, né residenti nel monastero, ma che ne percepivano le rendite dell’abbazia, si preoccuparono solo di sfruttare i beni, a scapito dei monaci, e della disciplina monastica e degli edifici, sempre più abbandonate.

Accanto a gestioni veramente disastrose, se ne distinguono tuttavia alcune positive, quella del cardinale Giovanni Francesco Commendone (seconda metà del Cinquecento), ad esempio, che fece eseguire molti restauri; del cardinale Francesco Maria de’ Medici (fine Seicento / primo decennio del Settecento) che cercò di risollevare le sorti dell’abbazia affidandola dapprima ai vollombrosani e quindi ai francescani; del cardinale Carlo Agostino Fabroni (secondo decennio del Settecento) che riuscì a costituirvi una florida comunità vallombrosana.

Vero e proprio cattivo genio dell’abbazia fu il cardinale Giuseppe Maria Feroni che brigò per ottenere la concessione dell’abbazia in enfiteusi a favore del proprio fratello e dei discendenti di lui, in perpetuo. (L’enfiteusi è un diritto reale su un fondo altrui che attribuisce al titolare (enfiteuta) gli stessi diritti che avrebbe il proprietario (concedente) sui frutti, sul tesoro e sulle utilizzazioni del sottosuolo). La parabola discendente dell’abbazia si concluse fra il 1786 (quando sulle volte della chiesa abbaziale crollò il campanile, costringendo i monaci ad abbandonare il complesso per ritornare su Montesiepi, e consentendo ai Feroni di affrancare l’enfiteusi rimanendo proprietari dell’abbazia e di tutto il suo patrimonio) e il 1789, quando il vescovo di Volterra ne decretò la profanazione, istituendo la pieve di monte siepi, affidata al clero diocesano.


Percorso di visita – dal progetto

CHIOSTRO
Il chiostro occupava quasi per intero il lato meridionale della chiesa e buona parte di quello occupato dai resti sopravvissuti del monastero. Era compreso entro un’altra ala di edifici, oggi scomparsa, che lo chiudeva verso sud. Oltre agli uncinelli in pietra infissi lungo il perimetro delle costruzioni, elementi dove era alloggiata la trave del culmine dei tetti del chiostro, resta solo un lacerto delle pareti perimetrali intervallate da bifore con archi sorretti da coppie di colonnette. Si tratta di una ricostruzione, in parte realizzata intorno agli Trenta del XX secolo con materiale in arte originale.

AULA CAPITOLARE
Un ampio portale con arco a sesto acuto costituito da conci in pietra alternati a mattoni rigati, levigati e colorati di rosso introduce a un ambiente con volte a crociera: la sala usata dai monaci per i loro raduni non liturgici, un’aula parlamentare dove discutere, ascoltare e decidere in armonia fraterna. Due grandi bifore affiancano la porta, con archi più ampi alla chiave rispetto all’imposta poggianti su coppie di colonne sormontate da un unico capitello in pietra. Le decorazioni, le tecniche costruttive e la semplicità e la raffinata efficacia di esecuzione delle diverse parti del prospetto esterno richiamano l’architettura circolante in Valdelsa, nel territorio volterrano e anche a Siena nella prima metà del Duecento.

L’interno della sala è invece pienamente cistercense, con le due colonne centrali e i capitelli in pietra dalle quali si dipartono le cordonature delle crociere. L’ambiente era scialbato a calce (imbiancato) e le costolature delle crociere erano decorate, come attestano alcuni frammenti dei rivestimenti originari sopravvissuti alla stonacatura. Tutta la sala rispecchiava il rigore cistercense.

INTERNO DELLA CHIESA
La pianta ha forma di croce latina: le sue dimensioni principali sono 72m di lunghezza e 24 m di larghezza delle navate. La pianta ha la forte analogia con la Chiesa di Casamari (Frosinone) e orientata secondo le usanze dei monasteri medievali: abside rivolta a Est e facciata a Ovest.
In origine era coperta da volte a crociera sopra le quali si sviluppavano i tetti. Le volte erano spartite da costoloni in pietra con chiavi centrali che, in qualche caso, assolvevano anche alla funzione di aereatore. I pilastri della chiesa hanno una struttura a fascio cruciforme con quattro semicolonne incastrate.

L’abside è a forma quadrata, austera e semplice, forma adatta per ospitare un coro ligneo, e presenta sei monofore ogivali e un grande occhio circolare che al centro recava un rosone in pietra, oggi non più esistente, a forma di fiore a 12 petali. Nel capitello del primo pilastro della navata sinistra si intravede l’unica figurazione umana dell’intero complesso.

Come è noto la scultura dei complessi cistercensi tendeva a evitare le figurazioni, soprattutto animali e antropomorfe. Questa è un’eccezione. La tradizione vuole che si tratti del volto di Ugolino di Maffeo,  maestro intagliatore di pietra.

I capitelli sono circa un centinaio e denotato la finitura e la maturità stilistica degli scalpellini che vi
lavorarono.

La scomparsa della copertura si deve al crollo del campanile, avvenuta nel gennaio del 1786, mentre nella chiesa si celebrava la messa: i monaci e i fedeli ebbero appena il tempo di mettersi in salvo, prima che le volte precipitassero nella navata.

SACRESTIA
Sul lato SUD del transetto si aprono due porte: , quella che comunica col primo piano dell’edificio monastico permetteva ai monaci, tramite una scala ora scomparsa, di passare dai dormitori direttamente alla chiesa; l’altra introduce sulla sacrestia.

Tra i molteplici usi assolti nel tempo da questo ambiente c’è stato, in epoca recente e durante
l’abbandono dell’abbazia, quello di falegnameria. Si tratta di un ambiente rettangolare coperto con volte a crociera di mattoni. Riceve la luce da una finestra a sesto acuto che si apre in corrispondenza della parte ricostruita a seguito del crollo del campanile.

E’ l’unico ambiente che, oltre allo Scriptorium, oggi conserva traccia delle decorazioni che in origine dovevano completare gli ambienti interni dell’abbazia. Tutte le volte e le costolature sono rivestite da un sottile strato d’intonaco decorato con semplici riquadrature geometriche sottolineate da sottili balze ornate a false tarsie e con serie di racemi vegetali. Spiccano i colori, nelle tonalità del verde, del giallo e del rosso.

Anche l’arco di un armadio a muro, sormontato da un arco a tutto sesto con decorazioni in laterizio presenta un trattamento simile, con cunei ed elementi dipinti anch’essi, in maniera alternata, di giallo di rosso e di verde. Un unicum nel suo genere.

Le decorazioni, solo recentemente individuate, saranno oggetto di prossimi interventi di restauro tesi alla riapertura dell’ambiente.

BIBLIOTECA
Si esce dalla sacrestia passando per la piccola biblioteca, un ambiente a servizio dei monaci e dell’abbazia.

SCRIPTORIUM
La visita termina nello scriptorium, uno degli ambienti più vasti tra quelli conservati del monastero.
Si ratta di un grande salone rettangolare spartito da una serie di quattro pilastri quadrati centrali dai quali si dipartono le volte a crociera. Anche quest’ambiente era completamente imbiancato. Il rivestimento di alcune volte, così come la decorazione pittorica delle cordonature sono stati riproposti da un restauro risalente agli anni Settanta del XX secolo, basato però su i frammenti sopravvissuti al degrado e alle stonacature, alcuni dei quali sono ancora riconoscibili in altre parti della sala. Era l’ambiente destinato alla copiatura dei volumi.


Il comunicato stampa con i riferimenti normativi

Firenze, 31 luglio 2017 – Il Ministero dei Beni e delle Attività culturali e del Turismo, l’Agenzia del Demanio e il Comune di Chiusdino (SI) hanno sottoscritto un Accordo di valorizzazione per il trasferimento del complesso monumentale “Abbazia di San Galgano” dallo Stato all’amministrazione comunale, come previsto dalle procedure del federalismo demaniale culturale.
Alla presenza del Sottosegretario di Stato del MiBACT, l’Onorevole Borletti Buitoni, l’accordo è stato siglato, nella Biblioteca delle Gallerie degli Uffizi, dal Direttore territoriale Toscana e Umbria dell’Agenzia del Demanio Giuseppe Pisciotta, dal Segretario regionale Mibact per la Toscana Giorgia Muratori, dal Soprintendente Archeologia, belle arti e paesaggio per le province di Siena, Grosseto e Arezzo Anna di Bene e dal Sindaco del Comune di Chiusdino Luciana Bartaletti.
Come previsto dalla normativa, la firma dell’accordo precede l’atto di trasferimento in proprietà che verrà definito a settembre e che di fatto chiuderà l’iter relativo al trasferimento del complesso monumentale al Comune di Chiusdino che, grazie al federalismo culturale, oltre ad avere la piena proprietà del bene potrà reperire ed investire tutte le risorse necessarie a garantire la massima fruibilità di questo suggestivo sito.
L’art. 5 comma 5 del D.lgs n. 85 del 2010, il c.d. “Federalismo Demaniale”, stabilisce infatti che “nell’ambito di specifici accordi di valorizzazione dei conseguenti programmi e piani strategici di sviluppo culturale, definiti ai sensi e con i contenuti di cui all’art. 112, comma 4, del Codice per i beni culturali ed il paesaggio, di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 e s.m.i., lo Stato provvede, entro un anno dalla data di presentazione della domanda di trasferimento, al trasferimento alla Regione e agli altri enti territoriali, ai sensi dell’art. 54, comma 3 del citato Codice, dei beni e delle cose indicati nei suddetti accordi di valorizzazione”).
Gli enti territoriali interessati possono fare richiesta di acquisizione all’Agenzia del Demanio di beni culturali, purché ne sia garantita la massima valorizzazione funzionale (art. 1 comma 2 del Decreto).

Informazioni su Claudio Cereda

nato a Villasanta (MB)il 8/10/1946 | Monza ITIS Hensemberger luglio 1965 diploma perito elettrotecnico | Milano - Università Studi luglio 1970 laurea in fisica | Sesto San Giovanni ITIS 1971 primo incarico di insegnamento | 1974/1976 Quotidiano dei Lavoratori | Roma - Ordine dei Giornalisti ottobre 1976 esame giornalista professionista | 1977-1987 docente matematica e fisica nei licei | 1982-1992 lavoro nel terziario avanzato (informatica per la P.A.) | 1992-2008 docente di matematica e fisica nei licei (classico e poi scientifico PNI) | Milano - USR 2004-2007 concorso a Dirigente Scolastico | Dal 2008 Dirigente Scolastico ITIS Hensemberger Monza | Dal 2011 Dirigente Scolastico ITS S. Bandini Siena | Dal 1° settembre 2012 in pensione | Da allora si occupa di ambiente e sentieristica a Monticiano e ... continua a scrivere
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