1974-1976: gli anni del Quotidiano – la grande avventura

Avanguardia Operaia voleva decollare a livello nazionale e per raggiungere l'obiettivo serviva un quotidiano. Non conosco gli aspetti organizzativi e di pianificazione e mi auguro che qualcuno li espliciti (i finanziamenti, la struttura, la selezione dei redattori, l'acquisto della grafica Effeti, la organizzazione della distribuzione, la amministrazione).

Oskian mi chiamò e mi disse che avevano pensato a me come caposervizio interni. Così, dopo alterne vicende, qualche permesso e qualche malattia, mi licenziai dallo stato nell'anno in cui stavo per passare di ruolo. Bruna non era proprio entusiasta, ma almeno avevamo la sicurezza del suo posto di assistente sociale in Ospedale. Era una avventura, lo sapevamo; ma in quegli anni siamo vissuti tutti di scelte di vita e di avventure.

Nel mio caso avevo già fatto la scelta di non rimanere in Univesità perché sarei stato più utile altrove. Durante il servizio militare, il mio posto di tecnico universitario di II categoria, avventizio, in prova, su fondi CNR sino ad esaurimento dei fondi, era stato trasformato, ope legis, in un posto di ruolo e, poiché mi ero laureato sarebbe diventato di I categoria e dunque avrei potuto iniziare la carriera universitaria dal di dentro. Le cattedre erano due operanti in un unico gruppo di ricerca: quella del professor Occhialini (fisica dello spazio) e quella della moglie Connie Dilworth (radioattività), la stessa dove operava Gianni degli Antoni che si apprestava a far decollare l'Informatica e che era partito dalla elettronica, strumento indispensabile per la costruzione dei rivelatori che venivano messi nei palloni sonda e poi nei satelliti.

Il professor Occhialini mi chiamò e mi chiese cosa volevo fare. Risposi così: la fisica mi piace, ma la politica mi piace di più ed intendo essere onesto con lei; credo che finirei per trascurare la fisica. Diedi le dimissioni e ci lasciammo da buoni amici. Con tutto lo studio che ci misi dopo, vi renderete conto che mi è rimasto un po' di rammarico per quella scelta. Basta guardare il mio corso di fisica che sta a questo stesso indirizzo: lì dentro ci sono io, la parte più vera e più profonda di me, quella che cerca la verità e non si stanca di esercitare il pensiero critico.

Ma mi piace cambiare, sono un inquieto, ogni 5-10 anni devo fare altro, e fu così che andai al Quotidiano. E' stata una esperienza bellissima e molto logorante sul piano esistenziale. Infatti, alla fine di essa, ho deciso che era più gratificante parlare a 20 studenti guardandoli in faccia invece di scrivere editoriali per ventimila compagni da cui ero lontano e che finivano per essere una specie di realtà virtuale.

Il 25 novembre 1974, un lunedì, iniziò l'avventura; il primo numero andò in edicola il 26. Per essere precisi ci avevamo lavorato per tutta la settimana precedente producendo due o tre numeri zero di cui l'ultimo arrivò sino alla tipografia. Avevamo uno dei primissimi impianti di fotocomposizione (nastro perforato, un computer che li leggeva e produceva le strisciate (stampate su carta lucida) sia degli articoli sia dei titoli, assemblaggio delle pagine, pellicole, lastre di alluminio e stampa).

Il Direttore era Silverio Corvisieri, un ponzese trapiantato a Roma, l'unico giornalista professionista che, dopo aver lavorato all'Unità, aveva poi diretto (insieme a Lucio Colletti) uno dei giornali rivoluzionari del 68, la Sinistra, diventato famoso per un numero in cui si insegnava a costruire la bottiglia molotov. Silverio, che in AO era sempre con un piede dentro e uno fuori, venne convinto a venire a Milano; si trovò casa per lui e la famiglia e fu lui ad insegnarci i primi rudimenti.

L'idea che avevamo in testa tutti era quella di tentare di fare un giornale completo e non un secondo giornale tutto politico; formato tabloid grande, 8 pagine, due delle quali (cultura, spettacolo e inchieste) erano prefabbricate e coordinate da Severino Cesari, Silvano Piccardi, Attilio Mangano e Umberto Tartari. Severino, di gran lunga il più colto tra noi, fu quelllo che se ne occupò con maggiore continuità. Veniva da Perugia ed aveva sempre un'aria malaticcia, un po' di tosse e un bel sorriso. Quando nel 1981 andai a fare gli esami di maturità a Roma fui ospite per quasi un mese nella sua casa di Roma condivisa con Gigi Sullo (entrambi lavoravano al Manifesto). Attilio, con la scusa che insegnava nei corsi serali, poteva fornirci gratis la sua presenza. Ha dato un contributo molto importante e se ne trova traccia nel libro "la generazione che ha perso" in cui Fabrizio Billi dedica un saggio proprio al suo lavoro di cultura politica nelle pagine del quotidiano.

Umberto, già laureato in Fisica e ricercatore al gruppo di Fisica dei plasmi, si è occupato di tutta la prima fase facendo anche il caporedattore prima di tornare, dopo i primi mesi, a fare ricerca universitaria. La sua presenza era del tutto naturale visto che, sin fal 68, era lui ad occuparsi del lavoro di organizzazione della rivista teorica e credo anche dei quaderni.

Sempre nella prima fase, nella stanza a destra dopo il centralino e prima dell'ufficio del direttore, c'è stata la presenza di Peppino d'Alfonso, uno dei compagni di chimica della prima generazione e che era stato la colonna portante, anzi di più, del quindicinale divenuto poi settimanale. Ce lo racconta direttamente lui nell'articolo dedicato al ricordo di Michele Randazzo. Eravamo un bel gruppo di parvenu e dunque all'inizio la presenza di una struttura forte di coordinamento dei redattori era indispensabile. Anche Peppino, dopo qualche mese se ne è tornato all'Università.

La produzione dei pezzi che davano vita alle pagine culturali veniva compiuta da una rete di collaboratori nazionali e l'assemblaggio aveva luogo nella stanza 1 (la stessa dove stavano Peppino e Umberto). Secondo me quel lavoro era eccessivamente elitario, da sinistra culturale (o forse io ero un po' troppo provincial-brianzolo) e, quando la direzione operativa passò nelle mie mani, il giornale incominciò a parlare di televisione, anche in prima pagina, grazie alla collaborazione di un compagno che, di mestiere, produceva i Caroselli.

Per il resto la struttura era quella tradizionale di un quotidiano; redazione organizzata in servizi con tre redattori per ogni area: interni, economia e sindacato, cronaca ed esteri oltre ad un giornalista un po' underground rispetto al nostro essere prima militanti rivoluzionari e poi giornalisti: Leonardo Coen.

Leo lavorava fuori dalla struttura fissa del giornale e un po' lo invidiavamo perché poteva fare l'inviato. Non facendo parte di AO si poteva permettere di fare il pierino di turno prescindendo dalle regole ferre della organizzazione. Così potè occuparsi di sport e di costume, oltre che insistere perché il giornale non si piegasse troppo alle esigenze della politica. La sua presenza era stata uno dei paletti posti da Silverio nei confronti della segreteria, nell'ambito della sua autonomia di direttore. Lo stesso poteva dirsi per il figlio di Gianni Brera, Carlo, un po' anarchico, che scriveva dei corsivi dissacranti firmandosi Sartana. Leo ci lasciò quando Scalfari fondò la Repubblica e ci è rimasto, come inviato speciale, per tutta la vita professionale sino alla pensione.

Il desiderio di avere un quotidiano era cresciuto più veloce delle gambe e così, per almeno un anno, abbiamo fatto un quotidiano senza avere le telescriventi; c'era una specie di fax con cui si ricevevano i pezzi dalle redazioni esterne, ma le agenzie le andavano a prendere i nostri baldi fattorini Nicola (Nicolosi) e Gigi (Gerosa) che, per tutta la mattina e nel primo pomeriggio, in tram o in motorino, facevano la spola tra via Bonghi (a metà di corso san Gottardo) e il palazzo della stampa in piazza Cavour a prendere le copie dell'Ansa.

Poi, per fortuna, il papà di Franco Calamida, Leonida, che era stato compagno di lotta antifascista di Adriano Olivetti, riuscì a procurare gratis le telescriventi e ci sembrò di rinascere. Sicuramente rinacque Nicola che incominciò a fare una vita più normale, mentre Gigi collaborò con i grafici per poi passare in redazione.

A proposito di Olivetti, quella nella foto era la nostra compagna inseparabile, insieme ai fogli di carta con riquadro bordeaux  da 65 battute per 30 righe. Era la cartella standard del QdL che faceva da unità di misura per ogni operazione. La mia Olivetti, a differenza di altri redattori che se la sono presa in conto stipendi non pagati, l'ho lasciata in redazione quando me ne sono andato intorno a novembre del 76.

i personaggi della redazione

Stanza 1: Umberto Tartari (caporedattore) c'era all'inizio ma poi, penso per ragioni di carriera universitaria, è tornato a fare il fisico dei plasmi. Così, per un breve periodo, ho dovuto fare sia il caposervizio interni sia il caporedattore: quello che rivede gli articoli, fa i titoli, dà i consigli e prende le decisioni se c'è da cambiare il menabò. Umberto aveva svolto un ruolo chiave, sin dall'inizio, nelle pubblicazioni di AO, nella rivista teorica e nel settimanale. Non ho mai capito come mai non fosse stato coinvolto più a fondo; probabilmente aveva deciso di tenere il piede in Università e occuparsi di fisica.

Come ho già detto, in questo locale abbastanza grande si facevano le pagine prefabbricate e lo si usava anche per ricevere le persone di passaggio data la sua vicinanza all'ingresso. Ad un certo punto ci si spostò Mario Gamba per seguire la terza pagina mentre il suo posto agli esteri fu preso da Gigi Gerosa.

Stanza 2: ci stava Silverio e, dopo la sua autodimissione improvvisa, che non ci è stata mai spiegata, ma che aveva a che fare con una diversa sensibilità politica e con differenze di linea rispetto all'approccio leninista canonico, mi ci sono trasferito io. Facevo il vicedirettore insieme a Massimo Gorla, mentre, formalmente il direttore era il segretario politico Aurelio Campi.

Massimo arrivava tardi la mattina a giornale già impostato, aveva tante cose da fare, spesso non c'era per via dei contatti con l'estero, e dunque non riusciva a stare dentro la finestra temporale degli impegni connessi alla fabbricazione di un quotidiano, anche perché, a pranzo, ci dava dentro e quindi la digestione risultava lunga. La definizione, che gli hanno appioppato dopo la morte, di gentiluomo comunista gli calza a pennello.

Sembra incredibile ma le dimissioni di Corvisieri nel dicembre del 75 non ci furono spiegate e lui non le motivò con la redazione. Nel suo libro del novembre 76, I senzaMao, ne parla diffusamente e si capisce che dietro c'erano una frattura caratteriale e politica con il gruppo dirigente milanese di AO. La sua lettura è che i contrasti fossero profondi e che lui sbagliò, in più di una occasione, a non esplicitarli. Fatto sta che, da un giorno all'altro, mi ritrovai a dirigere il quotidiano.

C'erano una scrivania, il telefono azzurro (quello con i tasti per i trasferimenti di chiamata), una poltrona e delle sedie su cui si appoggiavano a turno i sederi di tutti i redattori, per un consiglio o per scambiare una opinione. Ci entrava continuamente la segretaria di redazione (Carla) per gli appuntamenti, mentre le redazioni locali (Roma, Venezia, Torino e Napoli) si facevano vive telefonicamente.

E' stato allora che ho iniziato ad odiare il telefono e non mi sono più riconciliato, come ben sa chi mi chiama e, spesso, se sto facendo altro, mi trova un po' sgarbato. Di certo mi piaccioni di più le e-mail rispetto a WhatsApp, le leggi con calma quando decidi tu e non quando ti parte il beep. Tra le 14 e le 15:30 mi ero ritagliato il tempo per scrivere i pezzi (per gli interni o gli editoriali) e regolarmente, in piena concentrazione mentale, squillava il telefono; finivi la telefonata, davi le disposizioni conseguenti, ti riconcentravi e lui suonava un'altra volta.

Quando a fine 1976 diedi l'esame orale di giornalismo una delle domande che mi  fecero riguardava le fonti e il controllo delle fonti e io risposi che il nostro era un giornale un po' diverso dalla stampa borghese, le nostre fonti erano i movimenti e i compagni che ci stavano dentro non solo come giornalisti. Questo ricordo mi dà l'occasione per parlare delle redazioni locali. A Napoli c'erano Guido Piccoli a coordinare il lavoro di AO e alcuni compagni che muovevano i primi passi. Per un certo periodo Guido, uno dei due fratelli Ruotolo, collaborò con noi. A Roma c'era una vera e propria redazione con  sede  presso la casa di produzione di Renzo Rossellini. C'erano due Paole, Livia e altri di cui non ricordo il nome. A Torino Gianni Boscolo mentre, nel resto d'Italia, non avevamo persone a tempo pieno ed erano i singoli compagni a farsi vivi con  la redazione per raccontare quel che succedeva di importante (in particolare a Verona e Venezia dove avevamo una presenza importante).

Stanza 3: Carla si occupava della organizzazione, degli apparati tecnici, dei rapporti con le redazioni e con la tipografia e, con l'aiuto di altre compagne, della sbobinatura dei pezzi dettati per telefono. Il suo era un ruolo fondamentale per fare materialmente il quotidiano. A partire da una certa data, si aggiunse Michela che poi si sarebbe sposata con Cippone (Luigi Cipriani) e che ora ne cura la Fondazione.

Stanza 4: la stanza del centralino e della reception.

Stanza 5: adiacente alla parete del centralino c'era l'archivio fotografico mentre la camera oscura e le attrezzature stavano al piano di sotto di fianco alla amministrazione. I nostri due fotografi Nereo ed Emilio erano bravissimi e li ricordo con affetto, in particolare Nereo Pederzolli, gioviale e sorridente che ha poi fatto il giornalista televisivo per la Rai regionale trentina.

Una buona parte del locale era occupato dai tavoloni su cui i grafici (Saverio e Tille) preparavano i menabò in scala 1:1 dopo la riunione di redazione e passavano poi ad assegnare, in righe, le dimensioni dei pezzi e le colonne dei titoli. Era la sala grande, con sulla parete a sud anche un cenno di biblioteca e lì, la mattina verso le 10:30, facevamo la riunione a cui partecivano obbligatoriamente i capiservizio, ma che era aperta a tutti i redattori. Si faceva una rapida valutazione del giornale fatto il giorno prima e poi si ragionava sul da farsi. Avevamo già letto i quotidiani e dato una occhiata alle agenzie della notte. In riunione il direttore avanzava delle proposte per la prima pagina con particolare attenzione ad apertura, spalla ed editoriale e, in questa fase si ascoltavano i pareri e le proposte dei capiservizio con scelte eventuali di cambiamento.

A questo punto la palla passava ai grafici mentre la riunione proseguiva e si dava una presentazione di massima di tutte le pagine di ogni settore. Alla fine Tille e Saverio ricevevano dei foglietti riepilogativi e passavano alla preparazione dei menabò mentre nelle stanze di redazione si iniziava a lavorare.

Stanza 6: qui operava la parte un po' frikkettona della redazione grazie alla presenza di due compagne poco propense all'inquadramento: Ida Farè e Giovanna Paietta.

  • Ida ci educava al punto di vista delle donne, non capivi mai dove volesse andare a parare, ma alla fine ti rendevi conto che aveva ragione. Oltre a metterci la testa e il cuore, ci ha messo anche tanto del suo, privandosi di numerosi appartamenti di proprietà per fare il giornale. Leggetevi il ricordo che ne fece Lorenzo Baldi nell'estate del 2018 in occasione della sua morte in per Ida.
  • Giovanna era il nostro agente nella nuova frontiera del proletariato giovanile e di tutto ciò che non rientrava propriamente nel punto di vista di una organizzazione leninista in termini di costume (sesso, omosessualità, droga, proletariato giovanile). Trovate qualche spunto nell'articolo che Vincenzo Vita ha scritto nel recente "volevamo cambiare il mondo".

Nel tempo ci hanno lavorato, in periodi diversi, anche Roy De Gioia, Giovanni Lanzone, Emilio Genovesi e Piervito Antoniazzi, visto che la scuola non aveva un suo luogo fisico. La scuola era costantemente presente nelle pagine del quotidiano sia per gli eventi milanesi e delle altre città, sia perché il quotidiano faceva da luogo di elaborazione e trasmissione della evoluzione di linea politica. Piervito ad un certo punto si spostò alla redazione della radio Canale 96. C'erano poi Lorenzo Baldi e Mario Pucci che, dopo le vittoriose elezioni milanesi del 75, seguivano l'attività della nuova giunta di sinistra a Milano e il lavoro del nostro gruppo consiliare con Emilio Molinari. Fu uno di loro ad innescare, involontariamente, l'incidente diplomatico e sindacale che determinò una visita del servizio d'ordine per difendere l'onore offeso dei nostri dirigenti proletari e poi la dimissione della quasi totalità della redazione in risposta ad una richiesta di licenziamento. Ne ha scritto su Pensieri in libertà Lorenzo Baldi in da Avanguardia Operaia al Quotidiano dei Lavoratori.

Stanza 7: all'economia e sindacato c'erano Grazia Longoni (la Lella), che aveva già lavorato al settimanale, Liliana Belletti e Carlo Parietti, un torinese neoacquisto con la passione per l'economia. Qui si lavorava su due tavoli, il rapporto quotidiano con la commissione fabbriche ed il movimento dei CUB (ed era inevitabile che ci fossero la supervisione di Cippone e i contributi di Franco Calamida) e il tentativo di introdurre le problematiche della economia dentro il quadro della lotta di classe. Tutti e tre hanno poi continuato a fare i giornalisti in ambiti non strettamente poilitici e Carlo, dopo una parentesi al PDUP, è passato all'ufficio stampa della CGIL oltre che alla direzione del sindacato europeo dei quadri. Nella pagina economia e sindacato si affacciavano anche i diversi responsabili delle lotte sociali, da Cippino a Sandro Barzaghi a Claudia Sorlini che pur non lavorando in redazione, in particolare nel 75 e nel 76 erano costantemente presenti.

Stanza 8: il mio lavoro al quotidiano è incominciato qui insieme ad Ettore Mazzotti (che proveniva dal settimanale, aveva operato alla controinchiesta che portò al pamphlet La Strage di Stato e ora dirige diverse iniziative editoriali nel gruppo di Milano Finanza), la new entry Pierluigi Sullo (poi passato al Manifesto e confluito sulle tematiche dei movimenti e dell'ambiente) e Franco Vernice pensionato dopo una vita a Repubblica e recentemente scomparso. Muoveva i primi passi giornalistici, con interessi per la giudiziaria, Frank Cimini che però in quel periodo lavorarava ancora nelle ferrovie.

Agli interni, per ragioni di sensibilità io e Gigi seguivamo la politica in senso stretto, mentre Ettore, Franco e Frank erano gli uomini della giudiziaria e, come è noto, per il tribunale di Milano, dalla strage di piazza Fontana in poi, di roba ne è passata tanta. Il gruppo dei cronisti giudiziari era una realtà ben organizzata; ci si divideva il lavoro e poi si condividevano le informazioni. Inutile negare che avessi una preferenza per Gigi di cui mi piacevano la intelligenza e la cultura e a cui, nel momento in cui decisi di iscrivermi al PCI, sentii il bisogno di scrivere una lettera per spiegare le mie ragioni (lui era ormai a Roma al Manifesto).

Stanza 9: gli esteri, con Mario Gamba, alto, rosso, appassionato di musica, il più freak della redazione, Astrit Dakli scomparso da qualche anno dopo aver lungamente lavorato al Manifesto e Gigi Gerosa come new entry. Per la parte legata alla informazione diretta dai movimenti rivoluzionari di tutto il mondo il riferimento era, ovviamente, Massimo Gorla che per informarsi non usava le agenzie.

Stanza 10: la segreteria nazionale si era riservata una stanza distinta dalla sede di via Vetere e, in questa stanza facevamo anche piccole riunioni di vario genere quando c'era bisogno di ragionare con calma.

La giornata

La mattinata si concludeva impostando i pezzi; in ogni stanza si svolgevano delle mini riunioni, mentre alcuni privilegiati (della cronaca, degli interni e del sindacale) potevano andare in giro a fare i cronisti (li ho sempre invidiati).

Si staccava dall'una alle due e mezza: panino nella latteria di sotto, oppure pranzo al ristorante con cui ci eravamo convenzionati. Lui era abruzzese  e facevano la pasta alla chitarra. Ricordo un dolce, la goccia d'oro, che la proprietaria del ristorante, che era veneta, chiamava coglioncini degli angeli perché sull'esterno di un mezzo cilindro con meringa e creme varie erano depositati tanti piccoli bigné. Latteria o ristorante era d'obbligo la partita a carte: scopone, tressette o briscola a chiamata e poi si tornava su a scrivere sino alle 17:30. Quando sono venuto via dal Quotidiano, ero ingrassato di quasi 10 chili: vita sregolata e sedentarietà.

Non c'era teletrasmissione e quindi i pezzi andavano in tipografia (a ponte Sesto di Rozzano) con i fattorini e alle 17:30, a turno ci andava anche un redattore che rimaneva sino alla partenza della rotativa.

Gli articoli della prima pagina venivano rivisti da me mentre i capiservizio curavano quelli delle pagine interne. Alle 18:30 il giornale era definitivamente chiuso per consentire ai corrieri (compagni alla guida di Fiat Ducato e Ford  Transit) di andare a Roma, Torino, Venezia e Napoli, tutte le notti, con ogni tempo. Questo della chiusura anticipata è sempre stato un limite nella capacità del Quotidiano di essere un quotidiano vero. Era normale, rispetto alla stampa nazionale, toppare le aperture e tornare sopra a certi avvenimenti con un giorno di ritardo. Sarebbe servita la teletrasmissione e una doppia tipografia, come fece il Manifesto.

Momenti speciali

  • Ricordo la campagna contro Rumor e quella contro Leone. Importante fu la discussione, innescata da Silverio nell'ottobre 75, sul personale che è politico. Titolo Gioia di vivere e lotta di classe.  Da buon brianzolo faticavo a cogliere quelle spinte in avanti, invece Silverio vedeva lontano.
  • Il 17 aprile del 75 Ettore Mazzotti e Franco Vernice rientrarono in redazione sconvolti con in mano i documenti di Giannino Zibecchi la cui testa era stata appena schiacciata da un blindato dei carabinieri nel corso degli incidenti legati al tentativo di assalto alla sede fascista di via Mancini; erano emozionati e spaventati
  • Nel 75 a Milano ci furono manifestazioni poderose e ci furono le occupazioni delle case promosse dall'Unione Inquilini. Ci presentammo per il Comune di Milano e il risultato fu lusinghiero. Alla manifestazione del 25 aprile mia moglie Bruna correva con la bandiera e intanto dentro di lei cresceva Daniela che sarebbe nata a fine dicembre
  • A maggio ci fu il festival del proletariato giovanile a Parco Lambro con Giovanna Pajetta inviata e partecipante; la situazione si ripetè l'anno succesivo mentre esplodeva il movimento delle donne e noi avevamo la fortuna di avere Ida Farè in redazione che ci spiazzava con le sue considerazioni fuori dagli schemi
  • Per la redazione i mesi di luglio e di agosto del 75 e del 76 furono momenti di grande crescita nella solidarietà reciproca. Si facevano le ferie scaglionate e chi restava in servizio nel mese di agosto faceva vita comune, anche la sera, andando per trani; ricordo le serate alla bocciofila Martesana lungo il viale Monza; tiravamo tardi perché ci piaceva stare insieme.
  • Tra il 75 e il 76 ci siamo messi a fare i bambini: io e Bruna, Ettore Mazzotti e Tille Bortolotti, Grazia Longoni e Giorgio Gorli, Vanghelis Oskian e Claudia Sorlini. Ida, sempre all'Avanguardia, aveva iniziato prima, anche con Massimo Gorla.

Verso la fine

Nel corso del 1976 ci furono delle rotture all'interno del gruppo dirigente, e ne tratterò le capitolo dedicato alla parabola di AO. Quelle rotture ebbero un riflesso all'interno della redazione, considerata di destra e fatta oggetto di richieste di licenziamento, messa sotto tutela e persino di due visite da parte del servizio d'ordine.

Eravamo tutti molto stressati e cercavamo di capire perché, con tutto quel po' po' di movimenti, alla fine le masse, alle elezioni del 76, votarono PCI. Invece di ragionare si scelse la strada del rafforzamento del volontarismo. Credo che una riflessione, da parte di quelli che sono rimasti a gestire poi una lenta agonia, andrebbe fatta. Butto lì qualche ipotesi sulla vita stentata del Quotidiano dei Lavoratori.

Ci fu un eccesso di volontarismo; bisognava prendere quel treno anche se non si era ancora raggiunta una massa critica. Si pensò, da buoni comunisti rivoluzionari, che il fatto di avere a disposizione risorse umane illimitate consentisse di fare qualsiasi cosa. Pensate alla mancanza della teletrasmissione sostituita dai furgoni, alla mancanza delle telescriventi perché tanto il nostro è un giornale diverso, al quasi immediato ritardo nel pagamento dei compagni che stringevano i denti e continuavano a lavorare.

Nel corso del 75 avvenne quella che reputo una grande ingiustizia, da parte del gruppo dirigente alto, la supersegreteria (Oskian, Vinci, Gorla). Furono espulsi con ignominia due compagni che avevano curato il finanziamento e l'amministrazione e che avevano osato mettere in discussione talune scelte: erano Flavio Crippa e Pietro Spotti, due cari amici di vecchissima data, due persone pulite e serie che avevano osato chiedere dei chiarimenti ed osservare che una parte del danaro ricavato da compagni che si erano venduti le case, era stato speso malamente. Accanto a loro venne radiato Maurizio Bertasi. Grazie all'archivio messo a disposizione da Luigi Vinci presso a fondazione Marco Pezzi sono diisponibili documenti che consentono di risalire ai contenuti della vicenda (lettera alla segreteria di Crippa, Spotti e Bertasi), verbale (steso da Umberto Tartari) di una riunione tra i i tre e la segreteria allargata ai membri del C.C. Manca purtroppo il verbale della riunione di Comitato CEntrale che approvò le espulsioni.

I rilievi riguardavano la scelta di partire troppo presto, la mancanza di una programmazione, questioni riguardanti la diffusione e gli approvvigionamenti della carta e soprattutto una errata valutazione del valore e delle prospettive della tipografia. I tre tennero duro nei loro rilievi e furono passati per le armi in senso metaforico; carogne, traditori, controrivoluzionari. Nella miglior tradizione della storia del comunismo siamo rimasti a disagio, ma zitti. Approfitto per scusarmi con loro in maniera pubblica. Chi li accusava, dopo neanche un anno, si è trovato a farsi i processi reciproci come se, certe cose, non fossero già avvenute in quella rivoluzione a cui ci appellavamo tutti con nostalgia vantando il nostro antistalinismo.

Gli antistalinisti si comportarono da stalinisti e quel modo di passare sui corpi e sulle anime dei compagni, mi fa ancora male. Mi piacerebbe che chi ne fu coinvolto direttamente, su entrambi i fronti, esponesse la sua verità. La decisione venne presa in un Comitato Centrale in cui non ero presente, ma dopo la pubblicazione della prima versione di questo capitolo, si è almeno aperta una discussione (ne trovate ampia traccia nei commenti).

Me ne andai dal Quotidiano a novembre del 76 dopo che, nel mese di agosto, avevo osato raccontare sul giornale come era andata nel Comitato Centrale seguito alla sconfitta elettorale. Fu un articolo in tre puntate (lo trovate qui Perché ho votato contro al Comitato Centrale). Era dedicato:

  • al racconto di quel C.C.
  • ai problemi di strategia per la sinistra rivoluzionaria
  • alla questione relativa alla costruzione del Partito (con chi e per fare cosa), con le annesse e connesse divisioni tra le organizzazioni rivoluzionarie e dentro i gruppi dirigenti

Al rientro dalle ferie venni processato in Ufficio Politico per delitto di lesa maestà e mi venne paracadutato in affiancamento un dirigente di provata fede Vittorio Borelli (di Verona) che non sapeva nemmeno cosa fosse un giornale. Fu una coesistenza impossibile durata all'incirca un mese. Nello stesso periodo esplose anche il caso Corvisieri (dimissionario da Avanguardia Operaia con lettera su Lotta Continua) e per il quale venne richiesta la radiazione.

Quando me ne andai, ero logorato sul piano fisico ed esistenziale, deciso a cambiare vita. Tornai in redazione una sola volta, il 15 dicembre del 76. Mi ero alzato alle 4:30 per rispettare gli orari di mia figlia  di 11 mesi che si addormentava presto e si svegliava prestissimo. Ero in cucina e ascoltai alla radio la notizia della sparatoria avvenuta nella notte che portò alla morte di Walter Alasia e di due funzionari di polizia; uno era il padre di un nostro compagno, l'altro un esponente dei movimenti di democratizzazione del corpo. Walter lo avevo conosciuto bene all'ITIS di Sesto (dove insegnavo) quando stava passando da Gioventù Aclista a Lotta Continua.

Era la prova provata che le BR non erano un gruppo di provocatori ma una parte del nostro album di famiglia (come aveva scritto la Rossanda). Ritornai in via Bonghi e scrissi l'editoriale per ragionare su questi aspetti. E' l'unico numero del QdL che ho ancora.

Di lì a poco la crisi precipitò. Non venivano pagati gli stipendi, ci furono richieste di licenziamento politico e, nel corso di una delle riunioni che tenemmo per decidere il da farsi, mi fu chiesto di mettere in piedi una rivista di orientamento politico culturale. Non me la sentii e alla fine, quando fu confermata la richiesta di licenziamento di Lorenzo Baldi, si dimise quasi l'intera redazione.

Nel corso del 77 quando ripresi a studiare la fisica, la matematica, la storia e la filosfia della scienza, ripensai  molte volte alla nostra esperienza dal 68 in poi. Mi resi conto che non aveva avuto senso scrivere di tutto, dalla politica interna, alla questione palestinese, alle trame nere, pretendendo di avere la verità in tasca. Fu per questo che la pausa di riflessione che mi ero preso e che, nella idea iniziale, prevedeva di tornare al Manifesto per mettere in piedi una grande redazione milanese, non si realizzò mai. Meglio lavorare con i giovani in formazione, farli appassionare al senso critico e studiare.

Sentivo il bisogno di cambiare vita e di cambiare mestiere mentre si faceva strada l'idea che il problema non fosse lo scontro tra destra e la sinistra dentro AO, ma che la prospettiva rivoluzionaria che avevamo sognato era, appunto, un sogno e che ci servisse il pessimismo della ragione perché di ottimismo della volontà ne avevamo messo fin troppo. Qualche giorno fa, durante la presentazione del libro sulla storia AO, ho sentito dire le stesse cose da Pierluigi Bersani, nostro militante a Bologna per circa tre anni. Bersani ha detto in sostanza quando si fa politica e si vogliono cambiare le cose bisogna valutare con chi stare per poter contare. Quello che ho fatto dopo lo trovate negli altri capitoli perché non ha più a che fare con la storia del quotidiano.

Ultima modifica di Claudio Cereda 11 aprile 2021


La pagina con l'indice della mia autobiografia da cui potete scegliere i capitoli da leggere


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Info su Claudio Cereda

nato a Villasanta (MB)il 8/10/1946 | Monza ITIS Hensemberger luglio 1965 diploma perito elettrotecnico | Milano - Università Studi luglio 1970 laurea in fisica | Sesto San Giovanni ITIS 1971 primo incarico di insegnamento | 1974/1976 Quotidiano dei Lavoratori | Roma - Ordine dei Giornalisti ottobre 1976 esame giornalista professionista | 1977-1987 docente matematica e fisica nei licei | 1982-1992 lavoro nel terziario avanzato (informatica per la P.A.) | 1992-2008 docente di matematica e fisica nei licei (classico e poi scientifico PNI) | Milano - USR 2004-2007 concorso a Dirigente Scolastico | Dal 2008 Dirigente Scolastico ITIS Hensemberger Monza | Dal 2011 Dirigente Scolastico ITS S. Bandini Siena | Dal 1° settembre 2012 in pensione | Da allora si occupa di ambiente e sentieristica a Monticiano e ... continua a scrivere
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17 risposte a 1974-1976: gli anni del Quotidiano – la grande avventura

  1. Paolo Miggiano detto Tasso scrive:

    Grazie Claudio. Ho letto la nuova versione, aggiornata. Grazie anche per il collegamento al ricordo di Ida Farè.
    Ho una perplessità sull'intera storia del QdL, come fosse un giochetto a ripetere l'Iskra cinquant'anni più tardi, dopo che c'era stata, addirittura, una Seconda guerra mondiale di mezzo.
    Non voglio offendere il vostro lavoro di giornalisti della carta stampata, al quale, per quel che ho potuto, ho dato una mano. Ma c'era già la televisione e noi stavamo ancora col quotidiano? Ma non raggiungevamo, già con le radio, molte più persone?
    Perché non pensare, ad esempio, a un settimanale tipo "Panorama" ma dell'estrema sinistra; a cui aggiungere un impegno nelle tante radio libere che nascevano, per poi arrivare a una rete radio privata nazionale?
    E ancora. Ed era o no, il QdL, dal punto di vista economico, un pozzo di San Patrizio? E si rischiava o no, nella più consolidata tradizione socialista, di diventare un centro di potere autonomo dal partito, come, sempre nell'esperienza socialista, era stato il gruppo parlamentare?

    • Claudio Cereda scrive:

      Quasi tutto giusto e condivisibile.
      1) serviva un quotidiano? . L'idea originaria di Corvisieri era di fare un giornale politico ma non un organo di partito. La scelta delle 8 pagine di cui due o tre prefabbricate per temi di approfondimento andava nella logica del QdL come primo giornale e non come secondo. AO dopo il IV congresso stava trasformandosi in Organizzazione Nazionale e si stava entrando nella fase di riorganizzazione delle forze della sinistra rivoluzionaria e nella messa in atto della "lotta rivoluzionaria per le riforme".
      Il giornale serviva per prendere un treno che non sarebbe ripassato. Se vuoi la mia opinione è stato uno dei tanti momenti di forzatura volontaristica (ma questo lo dico con il senno di poi e del senno di poi son piene le fosse).
      Ho finalmente potuto leggere il documento dei 3 della amministrazione e diffusione alla segreteria e direi che avevano ragione nell'evidenziare la forzatura volontaristica. Il mio giudizio negativo riguarda la incapacità delle 4 organizzazioni più mature della sinistra rivoluzionaria (LC, AO, PDUP-Manifesto, MLS) di parlarsi, di uscire da una logica concorrenziale e di ragionare sulla natura e sulle tappe del processo rivoluzionario.
      2) radio libere Stavano nascendo e a Milano una delle prime, canale 96, fu promossa da persone di AO attente alla innovazione degli strumenti di comunbicazione, ma le radio erano allora strumenti di tipo essenzialmente locale a differenza del quotidiano organo nazionale di costruzione di organizzazione e di identità.
      3) autonomia redazionale. Il rischio che la redazione accentui gli aspetti di autonomia è già dentro la professione giornalistica e cioè abitudine a ragionare sui fatti e a guardare i problemi a 360°. E' una esperienza che ho vissuto in prima persona e che abbiamo vissuto come collettivo redazionale.
      4) L’idea del settimanale come la proponi era impensabile nel 74. Invece nella fase finale della rottura da parte della redazione (ricordo riunioni a casa di Ida) venne fuori l’idea di dar vita ad una rivista di orientamento politico culturale e ci fu chi propose che fossi io ad occuparmene. Ma io ero completamente scoppiato e avevo bisogno di riossigenarmi facendo altro.

  2. Claudio Cereda scrive:

    Quello che segue, ripreso da Facebook, è il mio saluto a Severino Cesari, pubblicato nell’ottobre 2017, quando giunse la notizia della sua morte.

    ————————-
    è morto Severino Cesari – uno di noi del QDL della prima ora, si occupava, ovviamente, delle pagine preconfezionate di Cultura e Spettacoli. In precedenza era stato uno dei nostri primi dirigenti di AO in Umbria insieme a Francesco Bottaccioli.
    Aveva 5 anni meno di me e io ero abbastanza giovane, dunque lui era giovanissimo, mica bamboccioni. Era dolce, pacato, con una voce lenta e dai toni bassi. Leggeva molto e parlava poco; molto diverso dallo standard del dirigente rivoluzionario di allora.
    Un po’ cagionevole di salute, lo ricordo con una sciarpa bianca di cachemire a proteggerlo dal clima pessimo di Milano.
    Ci siamo persi di vista dopo la crisi del QdL del 76/77 e lui se ne andò a Roma a lavorare al Manifesto insieme a Gigi Sullo, Astrit Dakli, Giovanna Pajetta, Carlo Parietti e Vincenzo Vita (al Pdup).
    Mi ricordo, quando ormai avevo ripreso ad insegnare ed ero in fase di studio assatanato di scienza dura e filosofia della scienza, di non aver gradito la stroncatura che fece della appena iniziata avventura della Enciclopedia Einaudi.
    Visto l’esito (che determinò il fallimento della casa editrice) forse aveva ragione ma a me sembrava così bello che qualcuno tentasse di ripetere l’avventura della Encyclopedie di Diderot.

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