da Avanguardia Operaia al Quotidiano dei Lavoratori – di Lorenzo Baldi

In Avanguardia Operaia sono arrivato nel 1971, con la confluenza del Collettivo lavoratori studenti di Saronno. Fu importante la presenza di alcuni studenti del Movimento di Scienze milanese, in particolare Alfredo Ponzini e Giampiero Banfi, divenuto professore di Fisica a Pavia, purtroppo scomparso nel 2002 a soli 56 anni e, affiancati da altri studenti universitari, molti dei quali di formazione cattolica.

Giampiero era tanto alto che ti doleva il collo a guardarlo negli occhi e le sue doti intellettuali erano nella stessa scala. Nella sua città natale si pensava che avesse la testa nelle nuvole e, curiosamente, sceglieva sempre, proprio lui, ragazze di statura sotto la media. Ci aiutò ad avviare i contatti con l’organizzazione e subito dopo si trasferì a Pavia, dove insegnava all’Università.

Avevo degli amici in quella provincia, riuscii a reclutarli e gli diedi così una mano a costruire l’organizzazione nella roccaforte lombarda di Lotta continua. Una sera d’inverno ero a casa sua a Pavia e persi l’autobus per Milano. Con la sua 500 Fiat che lo conteneva a malapena, inseguimmo il torpedone nella nebbia, quella che oggi non c’è più.  Di rado ho trovato qualcuno che andasse forte in macchina anche più di me, ma il pullman lo presi alla Certosa!

Ci introdusse ai rituali dell’organizzazione Attilio Mangano, una bella testa che ci insegnò come i bolscevichi si dessero del lei, tanto per misurare un punto di partenza un po’ distante dalla gioia di vivere che Silverio Corvisieri voleva abbinare alla lotta di classe. Insieme ad un gruppo di compagni, l’anno prima, avevo fatto crescere il movimento degli studenti medi e portavamo in eredità una realtà di massa piuttosto rilevante, destinata a crescere ancora. C’era un lavoro consolidato nelle fabbriche e un’attività di quartiere e nei piccoli centri limitrofi. Numericamente, dopo Monza, eravamo la seconda realtà più importante di AO in Lombardia, a parte Milano città.

Partecipavo alla Commissione regionale scuola, prima con Roberto Biorcio, poi con Alberto Garlandini, e cominciavo ad occuparmi di far crescere l’adesione ai Comitati di base studenteschi in tutta la provincia di Varese. Sotto la spinta decisa degli organismi regionali e nazionali, cercavamo di espandere la nostra influenza in tutta la provincia e, avendo già iniziato il lavoro con gli studenti, mi trovai ad essere l’uomo giusto al posto giusto.

Sostituii l’amatissima, ma troppo borghese, Moto Guzzi V7 con una capiente Dyane 6 e, sotto l’ala protettrice di Roberto Ceresoli, cominciai a girare la provincia giorno e notte, con uno stipendio part time. Roberto aveva parecchi anni più di noi, un fisico imponente, coltivato in gioventù praticando pugilato e culturismo, e divideva il mondo in provinciali e parigini, ispirandosi forse al cosmopolitismo di Massimo Gorla. Aveva un grande spirito pratico e interessi vastissimi, in cima ai quali stavano la politica e le ragazze. Tenne a battesimo il Centro Sociale Santa Marta e le sue giovani star, Jo Squillo (che ne ha fatta, di strada fino alla moda) e Roberto Camerini. Più tardi, quando iniziò il “riflusso” fu un pioniere del turismo politico-ricreativo verso Cuba.

Tornando alla provincia di Varese, tenevo collegati i gruppi che stavano crescendo a Busto Arsizio, Sesto Calende, Varese, nei comuni del lago. Cresceva l’intervento nelle scuole e nelle fabbriche; roba grossa, come Montedison, SIAI Marchetti, Agusta, dove Roberto Lovison costruì un Cub e un intervento nel sindacato di prima grandezza, prima di diventare uno dei più grandi esperti nella manutenzione degli elicotteri civili.

Si distribuiva il settimanale, si tenevano molte riunioni e si partecipava alle manifestazioni a Varese città, cercando di contrastare lo strapotere locale del Gruppo Gramsci, che tanta parte (poco conosciuta) ha avuto nel sorgere dell’ “autonomia”, dal ’77 in poi. Per qesto si cammellava su Varese da tutta la provincia, ciò che imponeva un grande contributo di risorse organizzative ai compagni di Saronno, capitanati da Giuseppe Uboldi, un ex seminarista, professore di filosofia, ma fin troppo concreto in politica. Si creò un conflitto molto aspro tra il localismo saronnese e la spinta a coprire l’intero territorio ed essere presenti nel capoluogo, un conflitto tra “apertura” e “chiusura” come se ne vedono tanti anche oggi. Il regionale tagliò il nodo di Gordio, separando l’organizzazione saronnese dal resto della provincia, della quale continuai ad occuparmi.

Quando mi fu proposto di andare al Quotidiano, la federazione – si chiamava così, ormai si ragionava da piccolo partito – di Varese (meno Saronno) era cresciuta da 20 a 80 militanti in poco più di un anno. Avevo, di fatto, rinunciato agli studi universitari ed ero stato eletto nel comitato centrale. Inoltre collaboravo a Politica Comunista con articoli sulla scuola e, con Roberto Ceresoli e Vincenzo Vita, alla neonata commissione cultura. Mi è rimasto il dubbio che la chiamata al Quotidiano avesse a che fare coll’ecclesiastico promoveatur ut amoveatur, per allentare le tensioni in provincia di Varese.

il Quotidiano dei Lavoratori

Arrivai in via Ruggero Bonghi nell’autunno del 1975, un po’ frastornato dagli impegni e dai cambiamenti degli ultimi anni, e mi adoperai, con Mario Pucci, a far decollare la pagina milanese-lombarda del Quotidiano, una virata verso la cronaca piuttosto inusuale nel panorama della stampa della sinistra rivoluzionaria su cui aveva insistito il vice, ma direttore di fatto, Claudio Cereda.

Il mio compagno di banco sapeva unire, come non sempre accade, capacità professionali e relazioni umane. Aveva una bambina molto piccolo che dormiva poco e portava in giro per Milano in macchina la notte, per farlo addormentare. Perciò, gli pesavano particolarmente le visite notturne in tipografia (a Ponte Sesto di Rozzano): la nostra pagina si stampava solo per l’edizione milanese e chiudeva più tardi; a noi due toccava, a turno, anche il compito di controllarla e modificarla, se non avevamo rispettato a puntino gli spazi attribuiti dai grafici.

La tipografia del quotidiano era attrezzata con un sistema di fotocomposizione che stampava le colonne di testo e i titoli su strisce di carta speciale che venivano incollate con la cera su un menabò con la gabbia grafica del giornale. I testi erano inseriti in un terminale computerizzato e si potevano regolare corpo e spaziatura dei caratteri per rispettare meglio l’impaginazione prevista dai grafici. Era un sistema molto avanzato per allora e lo era ancora di più per una tipografia delle dimensioni della nostra. Questa esperienza mi è stata molto utile più tardi, nella mia carriera professionale fuori dalla politica.

Contemporaneamente al lavoro in cronaca variavo un po’ con recensioni di libri e film. Era un obbligo sociale recensire Porci con le ali e mi impegnai in una colta polemica con Vincenzo Vita, mettendo a paragone Novecento di Bertolucci (che piaceva a me) e La Recita di Angelopoulos (del quale Vincenzo era un fan).

Claudio Cereda, che assorbiva più di tutti le tensioni che nascevano nel gruppo dirigente di AO, e tra questo e la redazione del Quotidiano, soffriva un po’ di stomaco e ci era grato quando gli facevamo compagnia nei suoi pasti frugali in latteria, con partita a carte obbligatoria (le latterie “di una volta” ora si citano molto ma quella era un po’ triste e non mi fa nostalgia).

Mario Gamba, con la testa nella redazione esteri ed il cuore nella musica, ha avuto un ruolo importante nell’introdurmi al jazz contemporaneo, che ho ripreso ad ascoltare con attenzione proprio in questi ultimi anni. Severino Cesari aveva appeso dietro la scrivania una formula matematica che aveva a che fare con l’entropia e i suoi discorsi erano sempre tanto interessanti quanto complicati.

Arriviamo all’estate del 1976. Dopo 8 anni di battaglie, la sinistra rivoluzionaria si presenta (più o meno) unita alle elezioni politiche  e ottiene l’1,52%, 1/22 del risultato del Pci, 1/30 tondo dei voti presi dall’intera sinistra. Passiamo luglio e agosto in redazione, occupandoci molto del disastro della diossina, a Seveso. Ida Farè, sempre proiettata al futuro, dopo il femminismo si era lanciata nell’ambientalismo ed era la nostra inviata speciale sui luoghi del disastro ambientale. Franco Vernice (un altro che ci ha lasciato troppo presto dopo aver passato una intera vita a La Repubblica) scrisse un articolo difendendo il diritto del carcerato all’evasione (con destrezza) e ne uscì una bella discussione sul garantismo, un tema sempre a doppio taglio nella sinistra comunista. Cominciammo anche a riflettere sul senso politico della batosta elettorale, degli errori commessi, sulla debolezza degli apparati teorici che utilizzavamo.

Il contrasto sulla direzione da intraprendere si aggiunse ai temi di scontro passati, sul femminismo, sulla condizione giovanile e sugli eccessi imperdonabili del nostro servizio d’ordine nel corso dell’anno passato, dei quali si intuiva qualcosa e si parlava sottovoce, senza scendere in dettagli.

La differenziazione, in redazione, prese anche una piega antropologica: ci sembrava che la linea di frattura tra i fautori dell’unificazione col Pdup e quelli di un rafforzamento identitario di Ao ne nascondesse un’altra, di tipo culturale: da una parte, pensavamo, ci sono quelli come noi, curiosi, aperti al nuovo, dall’altra parte, invece, si guardava sempre vicino e si pensava in termini di identità e organizzazione, rifiutando i cambiamenti.

Nel mese di agosto scorrazzammo più volte in una Milano deserta per raggiungere, dalla lontana via Bonghi, il ristorante promosso dal Comune al Castello Sforzesco, un’iniziativa molto popolare della nuova giunta di sinistra che aprì la stagione ininterrotta delle manifestazioni estive. Pagare il conto era un problema, perché di stipendi, al quotidiano, in un anno e qualche mese ne avrò visti due o tre. Si andava stringendo una solidarietà umana e politica tra noi redattori, che avrebbe giocato un ruolo importante nei mesi seguenti.

il fattaccio e la rottura

La redazione del Quotidiano ospitava una sala riunioni riservata alla Segreteria nazionale; i suoi componenti transitavano spesso in via Bonghi. Nei primi tempi, quando le tensioni erano meno evidenti, prevaleva la curiosità, la possibilità di farmi un’idea dei tipi umani, cosa quasi impossibile durante riunioni e assemblee. Ma coll’evolversi della situazione, una parte della segreteria cominciò a identificare la redazione come un contraltare pericoloso. Per l’altra parte eravamo un vantaggio, una voce letta ogni giorno dai militanti; ma eravamo anche molto radicali e poco controllabili giorno per giorno.

Di fatto, rispondevamo a due editori diversi: si sentiva sempre più una presenza occhiuta, che non faceva del bene alla qualità del lavoro e, come si vedrà tra poco, poteva determinare incidenti imprevisti nei rapporti interni ad AO.

Quando Claudio Cereda manifestò pubblicamente il suo dissenso, con i tre articoli Perché ho votato contro al comitato centrale fui incaricato di governare il traffico sulla pagina che, da allora, quasi tutti i giorni il giornale dedicava al dibattito politico interno. Ricevevo e conservavo i dattiloscritti in un cassetto e, secondo un metodo da manuale Cencelli, man mano li preparavo per la stampa e li titolavo. Mi trovai quindi esposto, in uno snodo delicato del lavoro redazionale, ormai semi-commissariato da Vittorio Borrelli, ma questo non mi creò mai problemi. Nel frattempo Cereda, disgustato dalla piega presa dal gruppo dirigente, si era dimesso dalla direzione e se ne era andato.

Il fattaccio accadde quasi per caso, quando a Milano ci fu una manifestazione dei “Circoli giovanili” (presto sarebbero diventati gli “autonomi”) che contestava la politica culturale della giunta e proponeva l’autoriduzione del biglietto dei cinema. Emilio Molinari, storico dirigente di Ao e dei Cub, consigliere comunale eletto nel 75, scrisse una lettera aperta al Sindaco Tognoli, criticando la programmazione intellettualistica delle sale di proprietà (edilizia, non gestionale) del Comune.

Sulla questione si erano dette molte cose che non condividevo, da parte del Pci, del QdL (con l’articolo di un nuovo adepto, Carlo Ceccon, imposto in redazione per contrastare, sui temi giovanili, Giovanna Pajetta) e anche di Emilio. Era il 21 novembre ’76 e pubblicai, a mia volta, una lettera al Quotidiano, proprio per non coinvolgere la redazione in un parere personale. Paragonavo tra loro le tre posizioni che non mi piacevano e definivo quella di Emilio una versione di sinistra della lotta al culturame di scelbiana memoria.

Ho riletto i documenti e non si trattava di un attacco personale all’arma bianca, ma di un ragionamento articolato. Forse, non avrei dovuto prendermela così duramente proprio con Emilio Molinari che certo non era un campione di astiosità e settarismo. E c’era di mezzo anche una questione generazionale. Per me, Mario Scelba stava nei libri, ma per Emilio era storia di vita vissuta e manifestazioni operaie, neppur così lontane. Perciò, anche se molto in ritardo, per questo aspetto voglio chiedergli scusa.

L’episodio ebbe riscontro immediato nell’apertura di un dibattito sul rapporto tra giornale e organizzazione e, dopo un mese esatto trovò la sua conclusione. Il 18-19 gennaio 1977 il Comitato Centrale decise, senza dibattito, il mio allontanamento dalla redazione. A un certo punto era accaduto anche che il servizio d’ordine accerchiasse la sede del giornale (quel giorno fui consigliato di starmene a casa).

Nei giorni precedenti si era instaurato un braccio di ferro tra la quasi totalità della redazione e la segreteria Nazionale. In un incontro con l’Ufficio Politico, il collettivo redazionale chiese di riconsiderare la decisione, ma il 21 dicembre un mio articolo venne bloccato in tipografia. Così, 22 redattori e collaboratori del Quotidiano rassegnarono le dimissioni. Dopo la conferenza stampa, tenuta presso la libreria Sapere di piazza Vetra, della vicenda si occupò anche il “Corrierone”. Ida Farè, che aveva contribuito con gran parte dei suoi averi alla nascita del Qdl, fu tra le più accese in mio sostegno, e quanto le sarà costato! La solidarietà nei miei confronti fu corale e commovente.

“il Manifesto” offrì ad alcuni di noi di lavorare nella redazione romana, mentre la componente di Ao che propendeva per unificarsi col Pdup accelerò i tempi. Trascorse un periodo di contatti che si sovrappose ai tempi della lotta politica interna ad AO. Così intorno alla fine di febbraio del 77 partirono per Roma, oltre a me, Pier Luigi Sullo, Carlo Parietti, Severino Cesari, Astrit Dakli, Mario Gamba, e Giovanna Pajetta mentre, della vecchia guardia rimasero al giornale Grazia Longoni, Liliana Belletti (del sindacale) e i fotografi.


Nel prossimo articolo la esperienza di Lorenzo Baldi al Manifesto


Per la storia del Quotidiano dei lavoratori leggere anche (di Claudio Cereda)

1974-1976: gli anni del Quotidiano (la grande avventura)

1974-1976: la Parabola di AO


 

 

 

Informazioni su Lorenzo Baldi

Lorenzo Baldi, classe 1952, dopo aver parecchio studiato non si è mai laureato. Ha collaborato al “Quotidiano dei lavoratori” e al “Manifesto” e si è iscritto al Pci alla fine degli anni ’70. È stato consigliere comunale a Saronno (VA), fino al 1990, anno nel quale ha lasciato il partito e la politica attiva. Svolge la sua attività professionale nel campo della comunicazione ed ha creato dal 1982 una piccola società che si occupa di formazione e comunicazione interna per grandi aziende di servizi, soprattutto nell’ambito della distribuzione organizzata. Nel corso di questa attività ha accompagnato l’introduzione nelle aziende dei mezzi di comunicazione audiovisiva, attraversando tutte le fasi della produzione analogica e digitale e della distribuzione fisica e virtuale dei contenuti. Parallelamente, ha coltivato un interesse particolare per l’arte contemporanea che, dopo un lungo intermezzo che ha seguito le pubblicazioni e mostre degli anni ’80, lo ha portato a creare un progetto no-profit di documentazione video, rivolto al mondo dell’arte, attraverso il sito web videoforart.it
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6 risposte a da Avanguardia Operaia al Quotidiano dei Lavoratori – di Lorenzo Baldi

  1. Alvaro Ricotti scrive:

    Mi intrometto nello scambio tra i vostri ricordi che ripercorrono anni che vi hanno visto protagonisti in ruoli significativi nella crescita e nel declino di quella formazione politica di cui ancor oggi mi vanto di aver fatto parte.
    Certo non in ruoli importanti come i vostri, ero e sono sempre stato un militante di base impossibilitato ad assumermi i ben che minimi ruoli di responsabilità, gravato da responsabilità familiari che nella mia scala di valori non coincidevano perfettamente con i valori dei politici di professione di derivazione leninista.
    Alla fine, prima del rompete le righe e ognuno per la sua strada senza nessuna indicazione, mi sono sentito come quegli orsi bianchi su una lastra di pack, alla deriva nell’oceano, che inesorabilmente e incomprensibilmente si sta sciogliendo. Rifletto da più di quarant’anni su quegli anni e delle risposte me le sono anche date e tutte si riannodano a pochi fenomeni.
    Una contingenza internazionale, una società in trasformazione che disarticolava i presupposti sui quali si basava la nostra misera analisi politica, una classe operaia che nella sua struttura storica stava scomparendo per ricostituirsi in un nuovo soggetto economico non coincidente con la nostra dogmatica visione della classe operaia e non da ultimi i soliti conflitti personalistici tra i dirigenti per la leadership.
    Naturalmente queste conclusioni necessitano di analisi ben articolate che mi sarei aspettato da coloro che quei ruoli hanno occupato. Invece mi sembrate, senza offesa, vittime della sindrome di London, nel senso di Artur London, quello de La Confessione che a distanza di decenni riconobbe gli errori nefasti di un sistema, considerandoli sempre come degenerazioni personali e giustificandoli in fondo, anche perché di quel sistema ne fece parte in posizioni significative.
    Abbiamo, avete, un grosso vantaggio, quello chiamato il senno di poi, possiamo, potete, vedere come la storia si è sviluppata da una parte e dall’altra della barricata, e non analizzarla nel suo evolversi quotidiano, quello lo lasciamo a menti eccezionali, anche se non se ne vedono all’orizzonte, ma almeno sul passato, che diamine, un po’ di coraggio.
    Solo Riva, in un suo commento alle vicende ricordate, ha dimostrato un po’ di carattere e questo gli fa onore, ha parlato di drammi (lui ha usato il termine più pesante di crimini), di scontri personali e passionali, ma lui ha questa vena d’artista che glielo permette, ma voi lucidi pensatori razionali potete superare le resistenze viscide, che abbiamo tutti ben inteso, e raccontarci come sono andati realmente i fatti e soprattutto perché in quel modo?
    Fatelo per quelli che non ci sono più, ma a maggior ragione per quelli che ancora a distanza di quasi cinquant’anni se la menano ancora e abbiano gli strumenti per riconoscere gli errori e i limiti di quegli anni che qualcuno ha forse frettolosamente chiamato ‘Formidabili’. Certo di passione ce ne era tanta, ma questa non può giustificare tutto.
    Mi piacerebbe sapere, e non è solo una curiosità, ma avendo come la maggior parte di voi superato la soglia dei settanta, per avere degli strumenti di conoscenza ulteriore per fare un bilancio di quegli anni che ci hanno segnato profondamente. Come e perché la nave dei nostri sogni e delle nostre speranze naufragò? Fu colpa degli ufficiali o della ciurma che accettava con scarso senso critico la rotta? La rotta era sbagliata o le mappe erano fasulle? Da dove provenivano le mappe che ciecamente ci apprestammo a percorrere? Quali furono gli scogli che le mappe non segnalavano sui quali la nostra nave andò a sbattere? E se qualcuno ebbe il sospetto che la rotta fosse sbagliata perché non lo disse; per paura, per convenienza, per piaggeria? A voi le risposte, vi aspetto.
     

  2. Lorenzo Baldi scrive:

    Ho scelto deliberatamente di raccontare piuttosto che commentare o indagare, di parlare di persone che amo ricordare e di ambienti che mi hanno stimolato in bene o in male. Ne ho tralasciati molti, anche perché scavare nella memoria non riesce sempre bene. Dopo più di 40 anni, non mi è sembrato il caso di sottolineare conflitti personali.
    Condivido l'indignazione per gli esiti tremendi della deriva muscolare di quegli anni, tanto più che, già allora, mi è sembrata motivata più da ragioni di identità e visibilità che da ragioni politiche (che non sarebbero comunque state un attenuante). Non ne ho parlato per non andare fuori tema e perché, direttamente, ne so quanto Wikipedia.
    Direi che con le organizzazioni della "sinistra rivoluzionaria", e anche con quelle della sinistra socialista e comunista, i conti li ha fatti la storia e ciascuno di noi li ha fatti poi a modo suo, riorientando il modo di pensare e di vivere. Solo, cominciammo, prima di altri, a disfare la tela.

  3. Claudio Cereda scrive:

    Due parole che prendono spunto dai commenti di Rino (Riva) e di Ennio (Abate).
    La mia insistenza nello spingere a ricordare e a raccontare deriva dalla convinzione che si tratti di tirar fuori testimonianze di una microstoria da mettere a disposizione di chi se ne vorrà occupare sul piano storico (se ne varrà la pena).
    Anche raccontare richiede di mettersi in atteggiamento pensoso (sono passati quasi 50 anni); per questa ragione insisto perché anche i commenti vengano collegati all'articolo e non rimangano in quella specie di cestino della spazzatura che è Facebook.
    A volte si raccontano cose dolorose e dovremmo avere l'intelligenza di depurarle dagli aspetti più emozionali o reattivi, che ci stanno, ma non devono.essere i soli.
    Anche io, come Lorenzo, penso che nelle questioni interne alla esplosione della redazione del Quotidiano dei Lavoratori, non fossero preminenti questioni di linea politica legate allo scontro tra la maggioranza filo-Vinci e la minoranza filo-Campi. C'era qualcosa di più profondo che veniva dalla presa d'atto della impossibilità e insensatezza di una stampa di partito, del piegare dei lavoratori intellettuali ad un rapporto prima con la organizzazione e solo poi con il reale complesso, multiforme ed in rapida evoluzione.
    Ci sembrava misero stare a leccarci le ferite, declinare lo slogan avanti con le lotte, mentre il mondo in cui avevamo creduto si rivelava mancante di solidi riferimenti di teoria politica. Non reputo un caso che quel gruppo di giovani giornalisti abbia poi preso strade politiche e professionali diverse ed è per quello (oltre che per logoramento personale) nei mesi di dicembre e gennaio mi dichiarai non disponibile a coordinare quel gruppo per mettere in piedi una rivista di orientamento politico e culturale.
    Non mi ritenevo all'altezza e pensavo che l'unica unità che avremmo potuto avere era quella della diversità. Faccio un esempio concreto riferito ad una persona a cui ho voluto molto bene: Pierluigi Sullo.
    Lui è andato al Manifesto, ci ha lavorato con impegno fino ad occuparsi della cucina del giornale (il caporedattore che fa un lavoro logorante e ben sui presta alla operosità bergamasca o brianzola). Poi all'improvviso se ne è andato, ha messo in piedi una rivista sui temi del mondialismo, ma ricordo anche le domande sui movimenti emergenti.
    Io ho fatto il contrario; sono andato a scuola, mi sono interfacciato con poche persone alla volta, mi sono rimesso a studiare le scienze dure e la riflessione filosofica su di esse e politicamente mi sono avvicinato al PCI.
    Raccontare, raccontare, raccontare.

  4. Ennio Abate scrive:

    Sono vicende tristissime. Anche per me che le seguii da una sezione di periferia (Cologno Monzese-Sesto- Cinisello) e non avevo  il polso  dello scontro che avveniva in Direzione o al Quotidiano dei lavoratori.
    Ma a distanza di tanto tempo resto deluso anche da una ]rievocazione dei "fatti" che non va al di là della cronaca
    personale.
    Parlare di "differenziazione […] antropologica" o "culturale" ("La differenziazione, in redazione, prese anche una piega antropologica: ci sembrava che la linea di frattura tra i fautori dell’unificazione col Pdup e quelli di un rafforzamento identitario di Ao ne nascondesse un’altra, di tipo culturale: da una parte, pensavamo, ci sono quelli come noi, curiosi, aperti al nuovo, dall’altra parte, invece, si guardava sempre vicino e si pensava in termini di identità e organizzazione, rifiutando i cambiamenti")  e presentare gli uni come "curiosi, aperti al nuovo" e gli altri come miopi ("si guardava sempre vicino") o ostili ai "cambiamenti", senza dire cos'era allora il "nuovo" ( il PCI?) e dove hanno portato poi i "cambiamenti" (quali?) mi pare davvero superficiale  e senza alcun respiro storico.
     
     

  5. Maurilio Riva scrive:

    Oggi non vado di fioretto. E' un commento e tiro fuori dalle scarpe un po' di sassolini. Ne sono avvenute di porcate in quei due ultimi anni di permanenza in Avanguardia Operaia. La cosa straordinaria è che noi competevamo di fioretto, loro, LORO, con i cannoni. Sono stati usati i mezzi più schifosi, più orrendi, più vecchi, più squalificati per dare addosso ai "destri". E' storia concreta, storia nostra, storia che fa male perché in nome nostro si sono perfino commessi dei delitti. Sì, delitti. Non antifascismo militante ma vero e proprio terrorismo di gruppo.
    Ricordo che a uno degli ultimi Comitati Centrali avevo di fronte a me Vittorio Borrelli e questo individuo a un certo punto si è messo a vomitare cose inaudite su di me. L'ho guardato e gli ho fatto un cenno con le  mani come per dirgli: "Giò de doss" e subito dopo ho fatto un intervento lucidissimo che Giovanni Lanzone citò quasi per intero in un articolo di fondo del QdL. Vittorio Borelli scrisse un libro poco tempo tempo parlando della triste vicenda di un  compagno studente della mia Sezione e militante del S.d'O. che a un certo punto si è tolto la vita gasandosi dentro l'auto del genitore in un box. Reputo che Vittorio Borelli abbia scritto questo libro per rifarsi una verginità morale. Infatti, immediatamente finì a dirigere un magazine di tirature importanti.

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