L’ora di lezione – Massimo Recalcati
Massimo Recalcati, psicoanalista lacaniano, è balzato alla notorietà, oltre che per i suoi libri intorno alla generazione Telemaco e per la produzione giornalistica, perché ha fatto da fornitore di idee e suggestioni alle convention della Leopolda.
Il fatto che si sia occupato anche di scuola, o meglio della fatica/bellezza dell'insegnare non poteva che indurmi a leggere cosa dice e cosa pensa intorno al tema della vite storta.
Il libro è un racconto riflessione sulla sua esperienza scolastica, l'esperienza di una vite storta caratterizzata da insuccessi scolastici che iniziano addirittura in seconda elementare, con la bocciatura all'esame di passaggio in III elementare (era il 1967) che passa attraverso il movimento del 77 e che viene cambiata con la scoperta di un senso a quel che si fa attraverso una professoressa di lettere dell'istituto agrario di Quarto Oggiaro che gli cambierà la vita.
Mobilitato dall’incontro con la parola dell’insegnante e dalla scoperta della dimensione erotica del sapere è questo desiderio singolare che appare sulla scena. Esso nasce per lo più sempre storto. Non è mai conforme a quello che l’Altro può attendere.
Questa stortura appartiene di diritto al ritratto del figlio, di ogni figlio. La forza dell’educazione non è recuperarla a un ideale standard di normalità, ma potenziarla, difenderla, amarla. Ecco una buona definizione dell’educazione: amare la stortura della vite.
È il compito che attende per primi i genitori e che in un secondo tempo investe la Scuola. Oggi il pericolo non è più concepire l’educazione come il calco autoritario della tradizione, ma quello di assimilarla all’esaltazione del principio di prestazione che trasforma la vita in una gara perpetua.
Diversamente la stortura della vite esige l’eccezione, lo scarto, la divergenza, l’eresia. Non è forse un’eresia a essere sempre in causa in ogni processo di soggettivazione? Non è questa la posta in gioco di ogni eredità?
Reinventare quello che abbiamo ricevuto dall’Altro in modo singolare, sintomatico, generare uno stile proprio, realizzare la vocazione del desiderio, rendere la nostra vita una vite storta.
Per chi deciderà di leggerlo mi permetto di suggerire di partire dall'ultimo capitolo, quello scritto per raccontare la sua storia di scolaro e studente. del suo rapporto con la madre e con le figure negative e positive dei docenti, della maestra che veniva da Milano alla elementare di Cernusco e che si rapporta a quei bambini di provincia con l'approccio tipico di chi porta sicurezza, verità e che non ammette discussioni; chi la pensa diversamente è uno stupido:
Ho in mente un ricordo preciso del mio rifiuto della Scuola. «Bambini, ditemi secondo voi perché il fuoco è bello?», chiese una volta la nostra maestra milanese. Rispondemmo ciascuno con le proprie parole: «Perché è caldo», «è rosso», «d’inverno riscalda le case», «serve per cucinare, per far bollire l’acqua», «a far addormentare i cow-boy nelle praterie», «a tenere lontani gli animali pericolosi», «a portare la luce nel buio», «a difendersi dai pericoli della notte». Nessuna risposta era quella giusta. La maestra con sguardo torvo e seccato prima ci rimproverò – «Stupidi!» – e poi soavemente ci svelò il segreto che a tutti noi sfuggiva: «Il fuoco è bello, – disse con aria saccente, – perché si muove!»
La bellezza del fuoco non era nei suoi colori, nel suo brillare nella notte, nella sua memoria, nella sua storia antichissima, nel rendere possibile la convivialità del pasto, nel calore che ripara, nel suo rapporto profondo con l’uomo e con la parola. La maestra ci rimproverava con sguardo severo e rigettava stizzita qualunque altro tipo di risposta che non coincidesse con la sua. È il rischio fondamentalista che corre ogni insegnamento scolastico: ridurre la possibilità aperta della risposta a una sola risposta possibile, richiudere l’apertura del mondo, appiattire la verità sul sapere già saputo.
Così Massimo Recalcati ricostruisce le figure importanti della sua vita, altre maestre, professoresse e più di tutti Giulietta che cercherà molti anni dopo, quando è già famoso e scopre che la professoressa Giulia Terzaghi è morta di cancro anche se nella sua scuola il ricordo è ancora molto vivo.
Ci hai insegnato che il desiderio senza impegno è solo un capriccio e che l’insicurezza aumenta con il sapere e non viceversa, perché non c’è sapere che possa assorbire integralmente la vita, perché la ricerca autentica aumenta i dubbi senza avere mai la pretesa di risolverli. Ci hai insegnato che le parole portano con sé una potenza sconosciuta che eccede qualunque spiegazione e di cui bisogna imparare ad avere rispetto e saperne godere. Con dolcezza mi hai introdotto – giovane ribelle com’ero a ogni forma di controllo – alla disciplina paziente e severa dello studio. La tua bellezza e la tua giovinezza non accorciavano affatto la distanza tra noi ma contribuivano stranamente ad alimentarla. Avrei scoperto solo più avanti negli anni che il desiderio può assumere le spoglie della difesa. Non mi ricordo del timbro di nessuna altra voce adulta oltre alla tua negli anni difficili della mia giovinezza.
Sono cinque capitoli in tutto La Scuola smarrita, il gesto di Socrate, la legge della Scuola, l'Ora di Lezione, un Incontro e sono dedicati alla scuola, agli studenti, ai docenti e alla docenza come era, come è diventata, come si può uscire dalla situazione di sofferenza vissuta da molti docenti.
Nel libro ci sono le tre generazioni e le tre ere della società italiana del dopoguerra quella della generazione Edipo, della generazione Narciso e della generazione Telemaco.
Nell'era di Edipo c'era la sottolineatura della diversità tra studente e docente, il primo apprendeva per assimilazione e imitazione e il secondo emetteva verità, come la maestra con lo chignon che veniva da Milano.
Il 68 e il 77 hanno ucciso i padri e i professori e hanno prodotto la società dei narcisi in cui vengono annullate le difficoltà e in cui gli adulti cessano di essere tali in nome della uguaglianza e della amicizia.
Non va bene così e Recalcati ci propone un modello di docente che non annulla le differenze, che può essere un modello, non in vista di una clonazione ma della riscoperta della propria identità. Il ruolo del docente è quello di trasmettere passione, insegnare l'importanza della fatica e mettere lo studente in grado di tirar fuori e costruire quello che ha dentro. Il docente come nuovo modo di concepire l'idea stessa di modello.
Recalcati identifica con la società dei Narcisi e della povertà culturale la scuola delle competenze che sarebbe caratterizzata da eccesso di facilitazione, da annullamento della complessità e della cultura e qui mi permetto di dissentire; credo che ci sia un limite legato alla esperienza personale in cui il libro e il professore umanista (dalle medie, all'agrario di Quarto Oggiaro, al professor Franco Fergnani della Statale di MIlano) hanno svolto una specie di funzione salvifica.
La scuola italiana ha bisogno di docenti appassionati e competenti come quelli che descrive Recalcati, ma si trova anche di fronte a compiti come strutturare le conoscenze, abituare a costruire soluzioni a problemi nuovi utilizzando il bagaglio vecchio, rapportarsi al mondo che sta fuori dalla scuola (alternanza scuola lavoro). Forse Recalcati è stato sfortunato nella sua esperienza di studente dell'Agrario di Quarto Oggiaro (e non a caso ha fatto altro nella vita) ma non per questo è corretto identificare la didattica del saper fare con una società appiattita, facilitata e piena di Narcisi.
E' un modello di lettura del ruolo e della funzione docente utile ma certamente non esaustiva. E' il taglio di uno psicoanalista colto e ricco di un vissuto personale importante ma dal libro restano fuori due questioni molto grosse che hanno a che fare con la funzione docente: 1) lo studente non è una monade ma fa parte di un gruppo classe entro il quale esistono problemini come riconoscimento da parte del gruppo, omologazione, rapporti tra pari, coercizione 2) il docente gioca un ruolo importante nell'ora di lezione ma agisce entro una organizzazione nella quale si pongono problemi che si chiamano collegialità e condivisione.
Qualche citazione
Ne ho messe tante, fatevi guidare dai titoli e scegliete ciò che vi appare più accattivante. L'ordine è quello sequenziale, ma come ricorda lo stesso Recalcati, mai pensare che si possa esaurire la conoscenza leggendo tutti i libri della biblioteca, da quelli con il titolo che inizia con A a quelli che iniziano con Z.
il sapere e la vita
Prevale oggi un modello ipercognitivista che vorrebbe emanciparsi completamente da ogni preoccupazione valoriale, per rafforzare le competenze a risolvere i problemi piuttosto che a saperseli porre. La metafora più adeguata non è più botanica ma informatica. In gioco non sono più le viti storte da raddrizzare ma le informazioni da immagazzinare: le teste funzionano come computer, come mappe cognitive che esigono un puntuale aggiornamento. Il sapere si estende orizzontalmente e perde ogni verticalità. Si tratta semplicemente di caricare più files possibili secondo il principio utilitaristico del massimo beneficio ottenuto con il minimo sforzo. Mentre la metafora botanica connotava un modello educativo fondato sull’autorità simbolica del grande Altro della tradizione, che esigeva innanzitutto un’obbedienza di ordine morale-valoriale, quella informatica sembra invece voler liberare con risolutezza il sapere da ogni laccio assiologico. Ma quello che inesorabilmente in questo modello viene meno è il rapporto del sapere con la vita.
la scuola Edipo
Quale Scuola scaturisce dalla figura di Edipo? È una Scuola che si fonda sulla potenza della tradizione, sull’autorità del Padre, sulla fedeltà al passato. Edipo vive nel rispetto colpevole della Legge e nella sua trasgressione. In questi termini il nevrotico vive il rapporto col padre: l’idealizzazione rimuove la spinta aggressiva e parricida. Nella Scuola-Edipo il sapere che viene trasmesso esprime una fedeltà cieca nei confronti dell’autorità del passato: l’idealizzazione assume la forma della conservazione che ripete lo Stesso.
C’è stato un tempo in cui andare a scuola e pregare erano la stessa cosa. Al punto che ogni lezione iniziava con la preghiera, prima dell’appello. L’autorità dell’insegnante era garantita dalla potenza della tradizione alla quale si appoggiava: il modello pedagogico prevalente era quello correttivo-repressivo. Il rapporto tra insegnante e allievo, fortemente gerarchizzato. È la Scuola tradizionale che si caratterizza per un setting «predefinito e istituzionalizzato, così potente da confondersi e identificarsi con un apparato istituzionale di tipo disciplinare». (13)
Nella Scuola-Edipo l’insegnante si trova nel posto dell’autorità, è un sostituto del Padre, di una Legge fuori discussione. L’allievo, in quanto figlio, dev’essere appunto istruito e educato come fosse una cera da plasmare
la scuola Narciso
La nuova alleanza tra genitori e figli disattiva ogni funzione educativa da parte dei genitori che si sentono più impegnati ad abbattere gli ostacoli che mettono alla prova i loro figli per garantire loro un successo nella vita senza traumi, che non a incarnare il senso simbolico della Legge. La figura di Narciso è infatti la figura che esige l’abolizione dell’ostacolo, del limite, persino della storia. La formazione si riduce al solo potenziamento del principio di prestazione che deve poter preparare i nostri figli alla gara implacabile della vita. Il fallimento non è tollerato, come non è tollerato il pensiero critico. L’assimilazione al sistema non avviene più a forza di colpi autoritari ma nello spegnimento del desiderio e della sua vocazione sovversiva.
La Scuola-Narciso vive infatti all’ombra del principio di omologazione e di una concezione efficientistica della didattica, assimilata non più al carcere o all’ospedale ma all’azienda. La paranoia implicita nella Scuola-Edipo lascia il posto alla perversione che si annida nella Scuola-Narciso. Se la prima si polarizza sulla differenza generazionale e sulle sue dinamiche conflittuali, la seconda ha come suo primo tratto lo sfaldamento della marcatura simbolica della differenza generazionale e, di conseguenza, l’assenza di conflitto tra le generazioni e la prevalenza di un Ideale di prestazione che le accomuna indifferentemente.
Di qui la solitudine profonda del corpo insegnante. Se il passaggio dalla Scuola-Edipo alla Scuola-Narciso si caratterizza per la rottura di quella saldatura fantasmatica che collega il corpo familiare al corpo docente (per Freud l’insegnante è il prolungamento fantasmatico del genitore), nella Scuola-Narciso prevale la specularità: è la ragione per cui, come abbiamo detto, il rapporto tra le generazioni si è rotto dando luogo all’attuale confusione immaginaria tra genitori e figli che finisce per isolare il corpo docente, vissuto come corpo estraneo, come corpo nemico soprattutto quando genera frustrazione nei figli-Narcisi. I figli si confondono coi padri. La dissimmetria viene meno e tutto si simmetrizza. Gli insegnanti sono tatuati come i loro allievi, alcuni si danno del tu o diventano loro amici su facebook, nessuno porta più la cravatta, le ore di lezione sono dedicate a rincorrere un silenzio e un’attenzione che sembrano impossibili da raggiungere, gli esami all’università non possono superare un certo numero di pagine, i voti considerati ingiusti dai figli mobilitano le proteste accorate dei genitori, i provvedimenti disciplinari sembra facciano parte di un passato archeologico, la parola smarrisce ogni peso simbolico e viene sopraffatta da una cultura delle immagini, che tende a favorire un’acquisizione passiva e senza sforzo.
la scuola Telemaco
La Scuola-Telemaco è una Scuola dove in primo piano dovrebbe essere situato il desiderio come ricerca della propria eredità. Mentre la Scuola-Narciso si fonda sulla confusione dei ruoli, sull’immedesimazione reciproca, sull’assenza di Legge, generando l’orgia dei Proci, quella di Telemaco ha il compito di ricostruire la figura dell’insegnante dai piedi. Se l’autorità simbolica della sua parola non può più essere garantita dall’automaton della tradizione, se non può accettare di essere sostituita dalla specularità senza passione degli oggetti tecnologici, deve essere ricostruita dalla testimonianza della forza della parola che ogni insegnante è tenuto a incarnare.
La Scuola-Telemaco si realizza nell’incontro con una parola che sa testimoniare non soltanto di sapere il sapere, ma anche che il sapere si può amare, si può trasformare in un corpo erotico. Come nel caso di Telemaco sappiamo che non ritornerà il padre eroe, carismatico, vittorioso, il padre-monumento, il padre dell’autorità infallibile, ma solo un resto del padre, solo quel che resta del padre. Nel caso degli insegnanti non si tratta più di perseguire l’ideale dell’insegnante-padrone che sa dire l’ultima parola sul senso della vita, ma quello dell’insegnante-testimone che sa aprire mondi attraverso la potenza erotica della parola e del sapere che essa sa vivificare.
educere
L’educazione come accrescimento, incremento, sviluppo progressivo e illimitato della conoscenza è un mito fasullo del nostro tempo. Questo mito corrisponde al modello dell’economia globale che considera l’espansione narcisistica di se stessi come la sola forma della verità. Diversamente, nessun processo educativo può essere assimilato a un programma di accumulazione di conoscenze già stabilite, né può essere teorizzato come una guida morale che sa condurre la vita sulla giusta via. È la prima etimologia del termine educere: condurre dietro di sé, condurre sulla giusta via. Da qui deriva un’idea dell’educazione come esplicazione guidata di potenzialità già inscritte naturalmente nel soggetto. Ma questa è solo una delle due possibili etimologie del termine educere.
La seconda mette invece in rilievo ... l’esperienza dell’essere trascinati, sospinti, portati via, condotti oltre sino a divergere da ogni sentiero già tracciato. È il punto dove l’educazione sconfina nella seduzione (educere è prossimo a seducere) nel suo significato etimologico di «condurre in disparte, condurre via». Come abbiamo visto, nei termini della psicoanalisi, questo significa che non ci può essere trasmissione del sapere senza transfert, se però non riduciamo il transfert a una regressione infantilizzante che neutralizza il pensiero critico favorendo un’identificazione a massa, ma lo valorizziamo come messa in moto del desiderio, come movimento di separazione dal già conosciuto e dalla ripetizione di ciò che è stato. Allora l’educare coincide con l’apertura stessa della vita, con la possibilità di fare esperienza della vita come apertura illimitata.
la solitudine dell'insegnante
Nel nostro tempo l’insegnante è sempre più solo. Questa solitudine non riflette solo la sua condizione di precariato sociale, ma, come abbiamo visto, anche la rottura di un patto generazionale coi genitori. Lo studio dello psicoanalista ne raccoglie frequentemente i cocci: genitori sempre più complici e alleati di figli sempre meno riconoscenti e sempre più pretenziosi, i quali anziché sostenere l’azione educativa della Scuola, di fronte al primo ostacolo, preferiscono spianare la strada ai loro figli, evitare l’inciampo, per esempio cambiando scuola o insegnanti, insomma recriminando continuamente contro l’Altro come fanno i loro stessi figli. Un tempo l’alleanza generazionale tra genitori e insegnanti non era mai in discussione. Il rischio era piuttosto quello di giustificare derive autoritarie del processo educativo. Oggi invece questa alleanza tende a dissolversi. L’ostacolo della differenza generazionale e dell’insuccesso scolastico viene vissuto solo come una frustrazione inutile che va semplicemente evitata. In questo difficile contesto la domanda che assilla l’insegnante sempre più solo si radicalizza: come può continuare ad amare ciò che fa? Come può resistere all’appassimento, all’accomodamento sulla routine del sapere somministrato secondo gli standard stabiliti, alla tentazione del disinvestimento o del «rinunciantesimo»? (8) Come può tenere viva l’erotica che comporta la sua pratica?
allucinazione e sublimazione
Il lavoro degli insegnanti è diventato un lavoro di frontiera: supplire a famiglie inesistenti o angosciate, rompere la tendenza all’isolamento e all’adattamento ebete e conformistico di molti giovani, contrastare il mondo morto degli oggetti gadget e il potere seduttivo della televisione e delle nuove tecnologie, riabilitare l’importanza della cultura relegata dall’iperedonismo contemporaneo al rango di una pura comparsa sulla scena del mondo, riattivare le dimensioni vitali dell’ascolto e della parola, rianimare desideri, progetti, slanci, visioni in una generazione cresciuta attraverso modelli identificatori apaticamente pragmatici, disincantati, cinici e narcisistici, nutrita da un uso smodato della televisione e dal regime della connessione perpetua alla rete.
Gli insegnanti più consapevoli ce lo dicono in tutti i modi: «Non ascoltano più!», «Non parlano più!», «Non studiano più!», «Non leggono più!», «Non desiderano più!» Gli allievi di oggi coltivano il sogno di un’autonomia dall’Altro di fronte a una crisi strutturale del sistema capitalista che, anziché favorire un processo di indipendenza, tende a prolungare una dipendenza sintomatica.
L’illusione di una «via breve» al successo personale oggi affascina e genera modelli pericolosi che trascurano la disciplina paziente della formazione e alimentano il rifiuto ostinato di ogni differimento del godimento. Per Freud questo modello di soddisfacimento, raggiunto per «via breve», corrisponderebbe al meccanismo psicotico dell’allucinazione....
Se la Cultura viene al posto della droga – come direbbe Pasolini –, se ci separa dall’allucinazione del godimento incestuoso, può davvero trasformare il mondo stesso in un libro. E in questa trasformazione trova posto l’amore come ammirazione per il mondo dell’Altro. La possibilità che il corpo diventi un libro coincide, infatti, con la possibilità dell’amore che, in fondo, è il nome più alto dell’incontro, in quanto ogni incontro degno di questo nome è sempre un incontro d’amore. Per questa ragione Freud definisce la sublimazione non tanto come un meccanismo di difesa («intellettualizzazione» come difesa dalla pulsione contrapposta alla soddisfazione direttamente sessuale della pulsione), ma come un tipo speciale di soddisfacimento pulsionale che esclude la rimozione («soddisfazione senza rimozione»). Nella sublimazione c’è godimento del corpo ma non di tipo apertamente sessuale, poiché la pulsione non è in presa diretta sul corpo ma erotizza il sapere, eleva gli oggetti culturali a mete sessuali. Spiegare, allora, una poesia di Ungaretti, le leggi della termodinamica, la deriva dei continenti, una lingua nuova, la bellezza formale di un’operazione matematica o di un teorema di geometria, non è mai semplicemente istruire, trasmettere asetticamente contenuti da un recipiente a un altro, ma è riuscire a mantenere vivi gli oggetti del sapere generando quel trasporto amoroso ed erotico verso la cultura che costituisce il più potente antidoto per non smarrirsi nella vita: è già educare.
Il gesto del maestro – a qualunque livello si esprima, dalla scuola elementare sino all’università –, essendo un gesto che sa trasformare i libri in corpi erotici, che sa rendere il sapere un oggetto che causa il desiderio, agisce allargando l’orizzonte del mondo, trasporta la vita altrove, al di là del già visto e del già conosciuto: la educa nel senso etimologico più radicale. In questo senso la Scuola eredita il dono del linguaggio, se il linguaggio è quel dono che sa allargare gli orizzonti del mondo. Come avviene? Esiste una e solo una condizione perché questo possa avvenire e riguarda il modo, lo stile, col quale un insegnante entra lui stesso in rapporto con ciò che insegna. È solo l’amore – l’eros – col quale un insegnante investe il sapere a rendere quel sapere degno di interesse per i suoi allievi, a renderlo un oggetto capace di causare il desiderio. Come vedremo meglio in seguito, la trasmissione del sapere avviene solo per contagio, per testimonianza.
il declino dell'ora di lezione
Uno dei problemi della Scuola oggi è che gli insegnanti sono oppressi per la maggior parte del tempo da mansioni che esulano completamente dall’attività didattica, cioè dal compito specifico dell’insegnamento. L’ora di lezione, che dovrebbe essere il cuore pulsante della Scuola, è marginalizzata da attività che esulano dalla didattica in senso stretto, schiacciata sotto la pressa di una valutazione sempre più ridotta a misurazione. Lo constatano tutti, non senza una certa amarezza: la scuola di ogni ordine e grado sembra ridotta a un «esamificio». L’impeto valutativo vorrebbe imporre scansioni dell’apprendimento uguali per tutti, depersonalizzando, rendendo tutto misurabile e quantificabile. Questa degenerazione docimologica della Scuola riflette il culto feticistico del numero e della quantificazione che, come abbiamo visto, è un idolo imperante del nostro tempo. Alla Scuola centrata sull’erotica dell’insegnamento si sostituisce la Scuola performativa della trasmissione delle competenze. Il principio di prestazione surclassa il processo di erotizzazione del sapere....
È vero: il nostro tempo non coltiva più l’ideale di una Scuola autoritaria e disciplinare, non è più il tempo dove l’allievo viene assimilato a una vite storta e l’insegnante a un paletto dritto e a un fil di ferro capace di raddrizzarne l’anomalia, non è più la Scuola-Edipo. Il conformismo attuale non è più morale, ma strettamente cognitivo e produttivo. L’allievo non è più una vite storta, ma una macchina che deve esprimere prestazioni adeguate. Sono i due modelli del sapere che si sono susseguiti, come abbiamo visto, nel passaggio dalla Scuola-Edipo alla Scuola-Narciso. Se nel primo prevale l’istanza morale-valoriale (l’educazione raddrizza le storture delle viti rendendole tutte uguali), nel secondo prevale l’istanza cognitiva-performativa: l’apprendimento è il riempimento del cervello di files che segue l’ideale di un travasamento – potenzialmente illimitato – di informazioni nella sua memoria. All’illusione botanica si è sostituita quella tecnologico-cognitivista: morte dei libri, informatizzazione degli strumenti didattici, esaltazione delle metodologie dell’apprendimento, accanimento valutativo, burocratizzazione fatale della funzione dell’insegnante che deve sempre più rispondere alle esigenze dell’istituzione e non a quella degli allievi, declino dell’ora di lezione.
Adoro insegnare
Daniel Pennac, in Diario di scuola, propone un ritratto mirabile dell’ora di lezione: Se voglio sperare nella loro piena presenza, devo aiutarli a calarsi nella mia lezione. Come riuscirci? È qualcosa che si impara, soprattutto sul campo, col tempo. Una sola certezza, la presenza dei miei allievi dipende strettamente dalla mia: dal mio essere presente all’intera classe e a ogni individuo in particolare, dalla mia presenza alla mia materia, dalla mia presenza fisica, intellettuale e mentale, per i cinquantacinque minuti in cui durerà la mia lezione.
Questa «presenza» che, secondo Pennac, ogni maestro deve saper incarnare e tenere viva, è la forma principale che assume il desiderio dell’insegnante. Per rendere presenti gli allievi nell’ascolto, è necessario che il maestro sappia innanzitutto rendere presente a se stessa la propria presenza. Non c’è alcuna tecnica che possa compensare un’eventuale «assenza di presenza». La presenza dell’insegnante assume le forme di uno stile. Perché quello che conta innanzitutto è lo stile singolare del maestro. Capita ogni volta che un insegnante parla. Al di là di ciò che dice, conta da dove dice ciò che dice, da dove trae forza la sua parola. Qual è il punto singolare di enunciazione da cui scaturiscono i suoi enunciati? La forza dell’enunciazione coincide con la sua presenza presente. L’insegnante parla e non è altrove, ma qui con noi. Non vorrebbe essere in un altro luogo. Desidera essere dov’è. E questo gli rende possibile evocare con forza altri luoghi. Solo la presenza dell’insegnante sa convocare alla presenza l’assenza di cui si nutre ogni trasmissione autentica di sapere:
Parlare ai muri.
Qualcosa sembra accomunare l’esperienza dell’insegnamento. Ogni insegnante ne ha fatto esperienza sulla sua pelle: ha parlato ai muri.
L’insegnamento porta con sé, sempre, un’inevitabile esperienza di solitudine, nonostante si tratti di trasmettere un sapere, di farlo circolare, di condividerlo con altri. Parlare ai muri è la condizione strutturale di ogni insegnamento, perché in ogni insegnamento è in gioco un’impossibilità. Quale? Quella di una trasmissione integrale, senza resti, trasparente, del sapere. La solitudine del maestro non è allora solo una figura retorica, ma dice qualcosa della postura essenziale di ogni insegnamento. Se insegnare significa letteralmente, come abbiamo visto, lasciare un’impronta, una traccia, un segno nell’allievo, è perché si esclude che la trasmissione possa ridursi a una clonazione, ovvero alla riproduzione passiva e conformistica della parola del maestro.
Al contrario, un buon effetto di insegnamento consiste nel rendere possibile la soggettivazione del sapere a partire dall’impronta che sa lasciare nell’allievo. È quello che ci ricorda Rovatti quando afferma che «l’insegnamento ha a che fare con la soggettivazione» e che «insegnare significa, né più né meno, insegnare a qualcuno a divenire un soggetto». (15) Questo significa che l’impronta del maestro non è e non deve essere un calco, sebbene ogni insegnamento porti con sé, sempre, questo rischio. Per questo i veri maestri spesso trovano insopportabili gli allievi che fanno loro il verso.
Amare la vite storta.
I veri insegnanti non sono quelli che ci hanno riempito la testa con un sapere già costituito, dunque già morto, ma quelli che vi hanno fatto dei buchi al fine di animare un nuovo desiderio di sapere. Sono quelli che hanno fatto nascere domande senza offrire risposte precostituite. È un processo che non riguarda solo l’allievo, ma l’essere del maestro stesso. Per questa ragione Giovanni Gentile ha potuto affermare che solo quando usciva dall’aula con la sensazione di aver appreso qualcosa che a lui stesso sfuggiva prima di cominciare, poteva considerare che quella era stata davvero un’ora di lezione.
È l’effetto inatteso e retroattivo di guadagno di sapere che dà al maestro la sensazione che vi sia stato un effetto di trasmissione. Questo significa che un’ora di lezione sa rendere erotico non solo il sapere che assume come oggetto, ma la stessa relazione didattica. Per questo si può dire che ogni bravo insegnante non è tanto colui che sa, ma colui che, per usare una bella immagine del padre sopravvissuto celebrato da Cormac McCarthy in La strada, sa «portare il fuoco». Non è qualcuno che istruisce raddrizzando la pianta storta, né qualcuno che sistematicamente trasferisce i contenuti da un contenitore a un altro, secondo schemi o mappature cognitive più o meno raffinate, ma colui che sa portare e dare la parola, sa coltivare la possibilità di stare insieme, sa fare esistere la cultura come possibilità della Comunità, sa valorizzare le differenze, la singolarità, animando la curiosità di ciascuno senza però inseguire un’immagine di «allievo ideale». Piuttosto, esalta i difetti, persino i sintomi, le storture di ciascuno dei suoi allievi, uno per uno. È, insomma, qualcuno che, innanzitutto, sa amare chi impara, (22) il che significa che sa amare la vite storta.
il bravo insegnante inciampa e non se ne vergogna
Nel tempo in cui l’orizzontalità infinita e a portata di mano della rete sembra scalzare la funzione dell’insegnante, offrendo un sapere apparentemente senza limiti, dobbiamo ricordare che non può conoscere l’arte dell’inciampo, non può in nessun modo incarnare il sapere che mette a disposizione, non può animare l’erotica dell’apprendimento, perché non ha un corpo. Le possibilità della rete e la computerizzazione tecnologica dell’insegnamento coltivano l’illusione dell’esclusione del corpo erotico e del transfert dalla relazione didattica. È quella che Riccardo Massa definisce «fallacia della tecnologia didattica».
... Coloro che vorrebbero ridurre il processo di apprendimento e di insegnamento alla trasmissione tecnologica e asettica di informazioni e che ripongono la loro speranza nella definizione di metodologie efficienti di assimilazione, di organizzazione e di valutazione dei saperi, pretendono di cancellare l’intrusione del corpo nella relazione didattica e commettono un errore ossessivo in senso clinico. Pensano che sia possibile separare nettamente gli affetti dalla rappresentazione e pensano che in questa separazione venga garantito un sapere oggettivo e inscalfibile, un sapere capace di essere padrone dell’essere. Con l’aggiunta che l’apprendimento stesso deve a sua volta essere ridotto a una mera tecnica dell’assimilazione, quando invece, come ricorda giustamente Deleuze, non sappiamo mai bene come si apprende, ovvero per quale canale soggettivo avvenga l’evento singolare dell’apprendimento. Quello che sappiamo di certo è che non può avvenire se l’allievo si limita a fare come il maestro, ovvero a imitare il suo sapere.
I bravi insegnanti sanno rinnovare ogni giorno il loro desiderio solo perché conoscono le insidie della caduta nella noia e nella ripetizione e si impegnano a ricercare i giusti antidoti sopportando la solitudine che la sfaldatura del patto generazionale tra gli adulti comporta. Per questa ragione il tempo dell’inciampo resta per loro essenziale, perché mantiene sveglio l’insegnante e, di conseguenza, impedisce anche ai suoi allievi di addormentarsi.
Il bravo insegnante non è colui che nega il valore del sapere, non è colui che ne proclama l’azzeramento, ma è colui che, mentre lo trasmette, sa anche mantenerlo parzialmente sospeso...
L' ora di lezione. Per un'erotica dell'insegnamento
Massimo Recalcati
Editore: Einaudi Collana: Super ET. Opera viva Anno edizione: 2014 Formato: Tascabile